Mind the economy

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John Locke, la proprietà privata e il ruolo trasformativo del lavoro

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 21/05/2023

Nel 1690 John Locke pubblica, in forma anonima la sua opera politica più compiuta i Due trattati sul governo. Il lungo sottotitolo del libro è di per sé piuttosto illuminante: “Nel primo, i falsi princìpi e fondamenti di Sir Robert Filmer e dei suoi seguaci sono rivelati e confutati. Il secondo è un saggio concernente la vera origine, l'estensione e il fine del governo civile”.

Robert Filmer era un esponente dell'assolutismo monarchico che aveva pubblicato dieci anni prima un'opera, Patriarca o il potere naturale dei re, con la quale difendeva l'origine divina e per questo illimitata e illimitabile, del potere del re.

Locke, come abbiamo visto la settimana scorsa, critica in maniera precisa e articolata questa posizione muovendosi lungamente sullo stesso terreno dell'esegesi biblica praticato da Filmer. Nel primo dei Due Trattati Locke introduce una netta distinzione tra la natura del dovere di ubbidienza dovuta dai sudditi al monarca e quella del potere di cui questi gode a comandare. Tale dovere e tale potere stanno tra loro in una relazione di equilibrio riflessivo, nel senso che, accettata la diffusa necessità che i cittadini obbediscano alle leggi per preservare la pacifica convivenza, il dovere al comando da parte dei governanti, invece, può essere esercitato solamente quando le leggi e i comandi emanati abbiano ragione di essere seguiti.

Leggi giuste e ingiuste

L'obbligo all'obbedienza delle leggi deriva, dunque, dalla ragionevolezza e dalla qualità delle leggi stesse. Quando queste venissero ritenute ingiuste, in quanto lesive della pace e dell'ordine civile, allora i cittadini avrebbero un legittimo diritto alla ribellione. È la natura stessa del potere politico, secondo Locke, che, trovando la sua legittimità nel consenso dei cittadini, determina il diritto alla ribellione nel momento il consenso dei cittadini dovesse venire a mancare.

«In quanto fine e misura di questo potere – scrive Locke - è la preservazione di tutta la società (…) esso non può avere altro fine e altra misura, quando si trova nelle mani del governante, che la conservazione dei membri di quella società nella loro vita, libertà e proprietà, e, dunque, non può essere un potere assoluto e arbitrario sulla loro vita e sulla loro proprietà, che devono essere conservate nella misura del possibile (…) Questo potere ha origine solo dal contratto, dall'accordo e dal mutuo consenso di coloro che formano la comunità.» (Locke, J., Due trattati sul governo. Edizioni PLUS, 2007, p. 292).

«Se l'uomo nello stato di natura è libero come si è detto – continua Locke - se è assoluto padrone della sua persona e dei propri beni, uguale al più grande tra tutti e soggetto a nessuno, perché si priva della propria libertà? Perché cede questo imperio e si sottomette al dominio e al controllo di un qualsiasi altro potere? A ciò è ovvio rispondere che, sebbene nello stato di natura egli ha tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto, e costantemente esposto alla violazione da parte di altri. Poiché tutti sono re quanto lui, ogni uomo essendo suo pari, e poiché la maggior parte di essi non osserva in modo stretto l'equità e la giustizia, il godimento della proprietà che egli ha in questo stato è molto insicuro, e incerto. Ciò gli fa desiderare di lasciare questa condizione, che, per quanto libera, è piena di paure e continui pericoli. Non è perciò senza ragione che egli spera e vuole unirsi in società con altri che sono già associati, o hanno in mente di unirsi per la salvaguardia reciproca delle loro vite, della loro libertà e dei loro patrimoni, cose che definisco col termine generico di proprietà» (2007, p. 123).

La natura della proprietà privata

Su questo punto, dunque, la critica di Locke a Robert Filmer è radicale ma non per questo meno ostica e priva di insidie intellettuali. Uno dei problemi più complessi che Locke dovrà affrontare nel secondo dei Due Trattati è quello relativo alla natura della proprietà privata. Egli lega indissolubilmente, infatti, la autonomia politica individuale alla proprietà privata. Se esiste questa, nonostante Dio abbia lasciato la terra in eredità comune a tutti gli uomini, allo stesso modo, il potere dei governati troverà un limite nella libertà individuale e nell'autonomia politica di ogni singolo individuo. Ma allora, sembra insinuare Filmer, se Dio ha lasciato la terra in eredità a tutti gli uomini in maniera comune e indistinta, assunto che anche Locke accetta, come è possibile giustificare, la diversità di possessi e proprietà individuali?

Su questo tema Filmer prende di mira la posizione classica di Grozio, che abbiamo discusso qualche settimana fa su Mind the Economy a proposito del “diritto di necessità”. Grozio, sulla scorta di Tommaso d'Acquino, giustificava la possibilità di accedere a risorse e beni non propri, qualora ci si dovesse trovare in caso di grave necessità, considerando questa possibilità come un ritorno a “quell'antico diritto di usare le cose, come se rimanessero ancora comuni” (De iure belli, 2.2.6.2). La posizione di Grozio appariva a Filmer fallata da una contraddizione fondamentale: da una parte Dio avrebbe donato agli uomini la terra in un regime di piena comunione, come lui era disposto a concedere, ma questi ad un certo punto si danno da sé l'autorizzazione a spartirsi arbitrariamente tale eredità, attraverso il diritto alla proprietà individuale. Se il diritto alla proprietà così come il potere politico non si fondano sul volere divino, ma su un consenso tra gli uomini, allora, sottolinea Filmer, sia l'una che l'altro correrebbero il rischio di essere continuamente messi in discussione e questa continua discussione sulla legittimità della proprietà e dei governi metterebbe a repentaglio il fondamento di una convivenza pacifica.

La prospettiva di Locke

Locke replica a questa critica partendo dal presupposto, come abbiamo visto, che la terra è stata donata agli uomini in comune affinché potessero generare frutti e goderne liberamente. A questo punto occorre dimostrare come da questo diritto alla comunione possa scaturire legittimamente quello alla proprietà individuale. Qui Locke introduce un concetto che lo renderà giustamente famoso e grandemente influente fino ai nostri giorni: il ruolo trasformativo del lavoro. Ciò che ci consente, in maniera legittima, di considerare parte dei beni comuni come nostra proprietà individuale è l'azione della “fatica del corpo dell'uomo e l'opera delle sue mani” che agisce sulla terra comune e ne trae frutti per la sua sopravvivenza e prosperità. Il lavoro materiale, come la caccia, la raccolta e l'agricoltura, operano in questo senso trasformazioni che generano il diritto a ciò a cui si è lavorato, che si è cacciato, raccolto o coltivato. Il lavoro, che è indubitabilmente, per sua natura, proprietà di ogni singolo individuo, trasfonde questo suo “essere proprio” nei frutti che attraverso di esso noi produciamo, trasformandoli così in legittimi “possessi”.

Commenta al riguardo il politologo John Dunn: «Se il lavoro è davvero l'origine della proprietà, allora – almeno all'origine, se non necessariamente dopo l'azione ripetuta dell'eredità – diritto e merito si fondono insieme; (…) Almeno inizialmente, chi possiede di più sarà chi merita di farlo e non avrà nulla di cui scusarsi con chi merita e possiede di meno» (Locke, Oxford University Press, 1984).

Non è un caso che un simile approccio alla legittimità della proprietà sia stata adottato da libertari contemporanei come Robert Nozick. In realtà la posizione di Locke rispetto alla proprietà è più sfumata. È lo stesso Dunn a far notare che per Locke il termine “proprietà” è il termine abitualmente utilizzato per indicare i diritti umani. Quando si dice che è compito del governo difendere la proprietà si intende affermare che il suo dovere primario è quello di assicurare a tutti i cittadini innanzitutto la sicurezza delle loro vite, le loro libertà e poi anche i loro beni materiali. Solo una volta assicurata la certezza di questi diritti potremmo parlare di giustizia e ingiustizia.

Quest'ultima, infatti, è per Locke, in questo non dissimile da Hobbes, nient'altro che la sottrazione di ciò di cui ciascuno di noi ha diritto: la vita, la libertà o i beni materiali. Mentre per la vita e le libertà la posizione è radicale, per quanto riguarda il possesso legittimo dei beni materiali la questione andrebbe, però, ulteriormente qualificata. Locke, come Grozio e Tommaso d’Aquino, prima di lui, era convinto che tutti gli uomini avessero un diritto alla sussistenza che dovesse prevalere su ogni diritto di proprietà esercitabile da altri esseri umani. Se, per esempio, è giusto vendere un certo bene al suo prezzo di mercato, per quanto alto, Locke credeva anche che se tale prezzo elevato avesse reso indisponibile quel bene ad una persona in grave pericolo di vita e se questa fosse successivamente morta a causa dell'indisponibilità di tale bene, tale comportamento non sarebbe stato più legittimo ma sarebbe stato equiparabile ad un vero e proprio omicidio.

Tale posizione sulla natura e sui limiti del diritto di proprietà deriva come conseguenza logica della prospettiva secondo cui gli uomini hanno originariamente ricevuto la terra in dono da Dio. Scrive Locke nel primo dei Due Trattati: «Noi sappiamo che Dio non lascia un uomo alla mercé di un altro al punto che questi possa, volendo, farlo morire di fame: Dio, il padre e il signore di tutti, non ha dato a nessuno dei suoi figli una tale proprietà sulla sua particolare porzione di cose di questo mondo, egli ha dato bensì al suo fratello bisognoso un diritto al sovrappiù dei suoi beni; così che ciò non possa essergli giustamente negato, quando i suoi bisogni urgenti lo richiedono. E quindi nessun uomo potrebbe mai avere un potere giustificato sulla vita di un altro, derivante dal diritto di proprietà sulla terra o sui possessi; perché un uomo ricco commetterebbe un peccato se lasciasse morire un suo fratello non provvedendo a fornirgli aiuto grazie al proprio patrimonio».

Continua ancora Locke: «Come la giustizia dà ad un uomo diritto alla proprietà di ciò che ha prodotto con il suo onesto lavoro e alle acquisizioni legittime dei suoi antenati che a lui sono state trasmesse per eredità; così la carità dà diritto a ogni uomo a quella parte della ricchezza di un altro che gli è necessaria per fuggire una situazione di estremo bisogno, qualora egli non abbia altri mezzi di sussistenza» (Locke, J., Due trattati sul governo. 2007, p. 94).

Questa posizione deriva logicamente dalla posizione di Locke relativa al processo attraverso il quale ogni cittadino può, legittimamente, acquisire un possesso legittimo. Oltre a quella di un trasferimento volontario, eredità, dono o scambio, la seconda possibilità, come abbiamo visto, si concretizza attraverso il lavoro. Congiungendo il mio lavoro alle risorse naturalmente disponibili aggiungo loro valore alla cui appropriazione posso rivendicare un legittimo diritto. Tale possibilità è soggetta ad una condizione, la cosiddetta “clausola limitativa della proprietà” secondo la quale posso prelevare solo una quota di risorse naturali che sia equa, tale, cioè, da non precludere la possibilità a tutti gli altri di potersi garantire una quota non inferiore delle risorse complessivamente a disposizione.

La discussione lockiana della proprietà privata, della sua origine e dei suoi vincoli fonda, come abbiamo già detto, la sua idea di legittimità del potere politico e del correlato diritto alla ribellione nei confronti del potere ingiusto. L'argomento di Locke sulla proprietà privata è essenziale per la sua affermazione che la giustizia è possibile nello stato di natura. Infatti, solo se nello stato di natura pre-politico, gli uomini sono in grado di atti di giustizia e di operare in modo autonomo, benché imperfetto, senza la necessità di ricevere un'autorizzazione esterna, allora sarà possibile il riconoscimento di una autorità politica originaria in virtù della quale i nostri obblighi politici nei confronti del governo si devono basare esclusivamente sul nostro consenso. Ed ecco il perché in assenza di tale consenso, la ribellione può essere considerata legittima e necessaria.

La posizione di Locke sull'origine della proprietà privata è strumentale al superamento della visione teistica del potere di Filmer, ma certo che per tanti problemi che risolve altrettanti ne pone. Come noterà molto tempo dopo Robert Nozick, per esempio, la logica stessa di appropriazione che si basa sull'immissione del lavoro individuale nella natura risulta problematica. “Per Locke i diritti di proprietà su di un oggetto privo di possessore hanno origine quando qualcuno vi mescola il suo lavoro – rileva Nozick nel suo Anarchia, Stato, Utopia (Il Saggiatore) - Ciò suscita, però, molti interrogativi. Quali sono i confini di ciò a cui il lavoro si mescola? Se un astronauta privato rende abitabile una zona di Marte, ha mescolato il suo lavoro a (e dunque viene in possesso di) tutto il pianeta, l'intero universo non abitato o solo quell'appezzamento particolare? Di quanta terra rende proprietari un'azione? Si può prendere possesso di terre vergini mediante un processo lockiano (magari sorvolandola ad alta quota per una indagine ecologica)? Perché mischiare il proprio lavoro con una cosa ci rende proprietari di questa cosa? Forse perché si è proprietari del proprio lavoro, e così si giunge a possedere una cosa precedentemente priva di possessore che viene a essere permeata da quanto si possiede (…) Ma perché mescolare quanto possiedo con ciò che non possiedo non è un modo di perdere quanto possiedo piuttosto che guadagnare ciò che non possiedo? Se possiedo un barattolo di succo di pomodoro e lo verso in mare, in modo che le sue molecole si mescolino uniformemente in tutto quanto il mare, arrivo con ciò a possedere il mare, oppure ho solo sprecato stupidamente il mio succo di pomodoro?” (2000, p. 187). Con il suo stile arguto e provocatorio Nozick mette in evidenza, con alcuni secoli di ritardo, alcune difficoltà presenti nelle argomentazioni di Locke. Ma non dovremmo mai dimenticare che nel 1690, quando quelle idee vennero pubblicate, a rischio della sua stessa vita, esse contribuirono in maniera determinante allo sviluppo di una visione liberale del potere, nella quale l'arbitrio dei monarchi doveva essere necessariamente controbilanciato dalle prerogative del Parlamento; la stessa visione per la quale i cittadini assoggettati ad un potere manifestamente ingiusto hanno un diritto legittimo alla ribellione e nella quale la proprietà privata diventa un diritto tutelato e limitato solamente da un altrettanto sacrosanto diritto al libero accesso originario da parte di tutti i cittadini alle risorse naturali. Posizioni, queste, di grande modernità e che, come abbiamo visto, causarono non pochi grattacapi a John Locke. Filosofo acuto e cittadino protagonista della politica del suo tempo.

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