I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 11/08/2024
L’idea di giustizia gioca un ruolo centrale nell’ambito della teoria sociale del filosofo ed economista austriaco Friedrich von Hayek. La particolarità della sua prospettiva riguarda il fatto che in essa la giustizia riguarda principalmente le cosiddette “regole di condotta”, quelle norme, cioè, che ogni individuo deve rispettare se vogliamo rendere possibile attraverso il processo della “catallassi” l’emersione di un ordine sociale che sarà imprevedibile ma ottimale. Tale ordine deriva da un processo nel quale le scelte dei singoli che liberamente perseguono le loro finalità individuali riescono a coordinarsi e grazie alla diffusione della conoscenza sparsa e alla protezione delle libertà individuali, politiche ed economiche, producendo in questo modo un vantaggio mutuo per tutti partecipanti.
Hayek, riprendendo Adam Smith, definisce la struttura portante di questo ordine spontaneo la “Grande Società”, una società guidata, come abbiamo detto, da “regole di giusta condotta” che, indipendentemente dai fini che ogni cittadino si prefigge di realizzare, stanno a garantire il suo “dominio individuale protetto”. In questo modo le “regole di condotta” rendono possibile attraverso lo scambio il contemporaneo soddisfacimento dei bisogni dei singoli, delle loro aspirazioni e dei loro desideri. Come sintetizza Eric Mack “La Grande Società è composta da individui che differiscono tra loro per valori, aspirazioni e impegni personali, per convinzioni, conoscenze e credenze, per competenze e capacità sociali ed economiche e per particolari circostanze sociali ed economiche. Eppure, sorprendentemente, essi sono riuniti in relazioni pacifiche e reciprocamente vantaggiose attraverso l’articolazione e l’applicazione di regole che – indipendentemente dai loro dettagli specifici – proteggono gli individui nei loro possessi e nell’uso dei frutti del loro lavoro, proibiscono la violazione degli impegni contrattuali e proteggono gli individui nei guadagni derivanti dal commercio e dalle interazioni contrattuali” (“Hayek on Justice and the Order of Actions”, in Feser, E., Cambridge Companion to Hayek, CUP, 2006).
La percezione di sicurezza che deriva ai cittadini dall’esistenza di tali norme, poi, li rende liberi di destinare le loro risorse intellettuali e materiali invece che alla difesa delle loro prerogative alla produzione e allo scambio con tutto vantaggio dei singoli e della società nel suo complesso. Ma i benefici derivanti dalla protezione garantita delle “regole di giusta condotta” non si limitano alla dimensione di produzione e scambio. Forse l’aspetto più interessante e anche quello più originale del pensiero di Hayek riguarda l’interazione tra mercato e conoscenza. Quest’ultima, infatti, è sparsa e posseduta solo in piccola parte da ciascuno dei partecipanti al gioco del mercato. Per questo nessuno sarebbe in grado di dirigere o orientare l’economia verso il raggiungimento di particolari obiettivi. Se anche fossero note gli obiettivi preferite dai cittadini, un’autorità centrale semplicemente non avrebbe a disposizione la conoscenza dei nessi causali esistenti tra questi fini e le azioni necessarie per perseguirli. Solo rinunciando ad un simile approccio dirigista – la “presunzione fatale del socialismo”, direbbe Hayek – e accettando l’evidenza della fallibilità e della limitatezza della nostra conoscenza, si potrebbe capire a fondo in che modo il mercato può favorire il funzionamento di una società ben ordinata. Il risultato sarà un ordine “non intenzionale” e “spontaneo”. Il quale certamente emergerà anche se non potremmo conoscere ex-ante le caratteristiche. Per questo, suggerisce Hayek, dovremmo concentrarci sulla qualità delle regole che presiedono al processo più che sui fini che vorremmo ottenere, per quanto auspicabili.
Da questa posizione sulla natura dell’interazione tra mercato e conoscenza deriva l’ostilità di Hayek nei confronti dell’economia pianificata, della politica economica interventista – famosa la sua polemica con Keynes – e dell’idea stessa di giustizia sociale, come vedremo più avanti. La visione hayekiana di una società giusta è, infatti, una visione storica o procedurale e non a “stati finali”, molto più vicina, in questo senso, alle posizioni di Robert Nozick che non a quelle di John Rawls. Ma è interessante, a questo riguardo, notare che la giustificazione della sua visione di società giusta è, proprio come quella di Rawls, antiutilitarista. Hayek considera utilitaristica ogni prospettiva secondo cui la preferibilità di un insieme di regole è misurata in base alle caratteristiche dell’ordine sociale che in concreto deriverà dall’adozione di quell’insieme di regole. Tale misurazione è per Hayek logicamente e fattualmente impossibile. Scrive in ‘‘Freedom and the Economic System” (1939) “La pianificazione economica implica sempre il sacrificio di alcuni fini a favore di altri, un bilanciamento di costi e risultati, una scelta tra possibilità alternative; e la decisione presuppone sempre che tutti i diversi fini siano ordinati in un ordine definito in base alla loro importanza, un ordine che assegna a ciascun obiettivo un’importanza quantitativa che ci dice a cosa dovremmo rinunciare per raggiungere altri fini e se vale la penna che questi vengano perseguiti e quale prezzo sarebbe troppo alto (…) L’accordo su un piano particolare richiede (…) per una società nel suo insieme lo stesso tipo di scala quantitativa completa di valori di quella che si manifesta nella decisione di ogni individuo, ma in una società individualista, tale accordo non è né necessario né possibile."
La classificazione dei risultati sociali alternativi – continua Hayek - presuppone qualcosa che non esiste e non è mai esistito: un codice morale completo in cui ai valori relativi di tutti i fini umani, all’importanza relativa di tutti i bisogni delle diverse persone, viene assegnato un significato quantitativo definito. (The Collected Works of F.A. Hayek, ed. Bruce Caldwell. University of Chicago Press, pp. 189–211). Non esiste, in altri termini, nessuna metrica comune per misurare e confrontare la preferibilità dei fini che ogni singolo individuo si prefigge di raggiungere nella vita rispetto ai fini di tutti gli altri. Lo scetticismo del Hayek rispetto alla possibilità di un simile progetto di pianificazione sociale è molto simile in spirito a quello che emergerà qualche decennio dopo dalla critica di Berlin al “monismo illuminista” e che troverà la sua espressione più rigorosa nei teoremi di Arrow e di Sen sull’aggregazione delle preferenze individuali e sulla impossibilità del “liberale paretiano” (ne abbiamo discusso nei Mind the Economy dal 54 al 58). Dove trovare, allora, una giustificazione non-utilitaristica alle “regole di giusta condotta” che Hayek pone al centro della “Grande Società”? Abbiamo già visto che tali regole subiscono un processo di selezione per tentativi ed errori e che il criterio chiave di tale processo è l’idea di “universalizzabilità” kantiana. Dovremmo, quindi innanzitutto, accettare o rifiutare una regola sulla base delle conseguenze che tale regola avrebbe se venisse universalmente applicata. Ma l’approccio deontologico kantiano non esaurisce completamente la critica dell’austriaco. La novità della sua proposta non è quella di rifiutare la possibilità di valutazione delle norme sociali sulla base della bontà dei risultati cui queste portano, quanto piuttosto sulla base dell’impossibilità di identificare il nesso tra alcuni particolari insiemi di regole e alcuni particolari esiti.
La prospettiva hayekiana dell’ordine sociale spontaneo ci consente di cogliere il legame tra un certo insieme di regole, in particolare quelle regole di condotta negative che proteggono l’integrità personale, la proprietà privata e la esecutività dei contratti, e l’emersione di certo modello di relazioni interpersonali cooperative. In altre parole, le regole di giusta condotta determinano la possibilità dell’ordine, ma non di quel particolare ordine. Per questo Hayek è critico rispetto a coloro che, come Rawls, partono dalla desiderabilità di un certo ordine sociale e vanno alla ricerca di quelle regole che meglio potrebbero favorirne l’instaurazione. Una posizione quest’ultima che il filosofo definisce “razionalismo costruttivista” cui oppone la sua prospettiva che viene definita “razionalismo evoluzionistico”, o nei termini proposti originariamente da Karl Popper, “razionalismo critico”. Il punto chiave della sua giustificazione all’esistenza delle norme di condotta deriva, quindi come abbiamo visto, dalla possibilità di “distinguere tra tali regole e l’ordine che ne risulta” (Legge, Legislazione e Libertà. Il Saggiatore, 1994, p. 125). Solo partendo dalla considerazione di una tale separazione tra regole e fini si può comprendere, ci spiega Hayek, la logica della “catallassi” e dell’ordine spontaneo. “Tra i membri della Grande Società – scrive il filosofo - che per lo più non si conoscono, non vi è accordo sull’importanza relativa dei fini rispettivi. Non esisterebbe armonia ma aperto conflitto di interessi se fosse necessario giungere ad un accordo concernente la prevalenza di determinati interessi su altri. Ciò che in questa società rende possibile l’accordo e la pace è che viene chiesto agli individui di essere d’accordo sui mezzi, non sui fini: mezzi che sono in grado di servire a una grande varietà di scopi e dai quali ciascuno spera di essere assistito nel perseguimento dei propri scopi. Invero – continua Hayek - la possibilità di estendere al di là di piccoli gruppi che possono essere d’accordo su fini specifici, un ordine pacifico ai membri della Grande Società (che non possono accordarsi come i piccoli gruppi) è dovuta alla scoperta di un metodo di collaborazione che richiede l’accordo soltanto sui mezzi e non sui fini” (p. 188).
Un accordo sui fini, del resto, nella prospettiva hayekiana non sarebbe possibile come abbiamo già anticipato anche solo per ragioni puramente epistemologiche. A causa, cioè, del cosiddetto “problema della conoscenza” (the knowledge problem); una conoscenza che secondo il filosofo “esiste solo nella forma dispersa, incompleta e incoerente in cui appare in molte menti individuali, e la dispersione e l’imperfezione di tutta la conoscenza sono due dei fatti fondamentali da cui le scienze sociali devono partire” (The Sensory Order: An Inquiry Into the Foundations of Theoretical Psychology. University of Chicago Press, 1952). La conoscenza posseduta dai singoli e sulla base della quale tutti noi agiamo non solo è dispersa e imperfetta, ma è anche, spesso, fattualmente errata, distorta e, per complicare ulteriormente le cose, interdipendente. Quando, per esempio, si diffonde, per qualche ragione la voce di una imminente crisi di liquidità nelle banche i risparmiatori si precipiteranno a ritirare i loro risparmi e questa corsa agli sportelli renderà vera quella credenza che magari era originariamente falsa. Queste caratteristiche della nostra conoscenza rendono decisamente complicato il compito di quelle scienze sociali - economia in primis - che vorrebbero utilizzare le regolarità comportamentali degli esseri umani non solo per descrivere la logica sottostante ai macrofenomeni ma anche per intervenire attivamente nel funzionamento del mercato, per esempio, o per progettare istituzioni capaci di indirizzare i sistemi sociali verso esiti desiderati. Se anche conoscessimo la logica profonda di questi fenomeni, saremmo comunque incapaci di ottenere questi risultati a causa del problema della conoscenza. Solo potendo conoscere, infatti, ciò che ogni partecipante al gioco sociale conosce ciò potrebbe essere plausibile. Ma questo, naturalmente, è impossibile. Dobbiamo perciò abbandonare il regno dei fini per concentrarci su quello dei mezzi. Cioè, sullo sfondo di regole di condotta capaci di mettere ogni cittadino nelle condizioni di usare al meglio la sua conoscenza privata e, attraverso l’imitazione magari, di renderla disponibile anche agli altri. “La possibilità di avere un ordine giusto – scrive Hayek – dipende da tale necessaria limitazione della nostra conoscenza fattuale, e che pertanto tutti quei costruttivisti che argomentano abitualmente partendo dall’assunzione di onniscienza non possono giungere ad intravvedere la natura della giustizia” (Legge, Legislazione e Libertà. Il Saggiatore, 1994, p. 20).
E arriviamo al punto cruciale della visione hayekiana. “La giustizia – scrive - non è quindi l’equilibrio di interessi particolari in gioco in un caso concreto o perfino degli interessi di classi di persone determinabili, né mira all’avvento di uno stato di cose particolare considerato giusto. Non si occupa dei risultati a cui porterà una particolare azione. L’osservanza di una norma di mera di condotta, infatti, avrà spesso conseguenze impreviste che se fossero state fatte accadere deliberatamente, sarebbero considerate ingiuste (…). Hayek continua ponendo in chiaro il rapporto tra giustizia e conoscenza affermando che “in una società di persone onniscienti non ci sarebbe spazio per il concetto di giustizia: ogni azione sarebbe giudicata come mezzo per ottenere effetti noti, e presumibilmente l’onniscienza includerebbe la conoscenza dell’importanza relativa dei diversi effetti. Come tutte le astrazioni, la giustizia è un adattamento alla nostra ignoranza di fatti particolari che nessun progresso scientifico può totalmente rimuovere. L’ordine della Grande Società deve essere istituito osservando norme astratte indipendenti dai fini sia perché non è possibile valutare secondo la loro importanza relativa i fini particolari dei diversi individui, sia perché non si conoscono tutti i fini particolari” (p. 232).
In conclusione, dunque, per Hayek il compito della giustizia è quello di garantire le condizioni per la scoperta piuttosto che la costruzione di un ordine sociale ed economico ottimale. Una posizione originale e controcorrente, come abbiamo visto, sia rispetto all’utilitarismo di matrice benthamita che al razionalismo costruttivista Rawlsiano. Vedremo nelle prossime settimane più nel dettaglio i punti di differenza con il pensiero di Rawls e analizzeremo le ragioni della sua critica al concetto stesso di “giustizia sociale”, definita da Hayek non troppo delicatamente come “una grave minaccia per la libertà”, “un miraggio”, una “formula vuota e priva di significato”, “una credenza quasi religiosa senza alcun contenuto”, “un incubo che oggi fa dei bei sentimenti gli strumenti per la distruzione di tutti i valori di una civiltà libera”, e perfino un’“insinuazione disonesta... intellettualmente disdicevole, il marchio della demagogia e del giornalismo a buon mercato che i pensatori responsabili dovrebbero vergognarsi di usare perché, una volta riconosciuta la sua vacuità, il suo uso è disonesto”.