Mind the economy

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Cosa fonda il nostro desiderio di giustizia?

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 27/08/2023

“In ogni epoca del pensiero speculativo, una delle obiezioni più forti alla dottrina secondo cui l'utilità o la felicità sono il criterio di ciò che è moralmente corretto e moralmente scorretto, la si è ricavata dall'idea di giustizia”. Così scrive John Stuart Mill nel quinto capitolo de L'Utilitarismo (1861) dove discute, appunto, la connessione tra l'idea di utilità e quella di giustizia. La chiarificazione di tale rapporto è necessaria perché secondo Mill “Quel sentimento potente, quella percezione apparentemente nitida che la parola [giustizia] richiama con una immediatezza e una certezza che rassomigliano all'istinto, alla maggior parte dei pensatori è parso che indicassero una qualità insita nelle cose”. Cioè, dice Mill, la sensazione profonda che evoca in noi l'idea stessa di giustizia ce la fa assimilare ad una proprietà del mondo, ad una caratteristica ultima di fatti, situazioni, azioni, pensieri. Caratteristica che, inoltre, ci appare non solo disgiunta dall'idea di utile e conveniente, ma spesso addirittura opposta. La posizione comune vede, dunque, ciò che è giusto, spesso, contrario al conveniente. Questa è esattamente la convinzione che Mill vuole ribaltare. Per lui il giusto non è altro che una derivazione del conveniente, e un'azione, uno stato del mondo, una istituzione, non possono essere giusti se non sono anche convenienti e utili.

La sua argomentazione prende le mosse da un'analisi di quegli elementi comuni a ciò che di solito riteniamo giusto o ingiusto. In primo luogo, afferma Mill, è universalmente riconosciuto come ingiusto privare qualcuno “della sua libertà personale, dei suoi averi, o di qualunque altra cosa gli appartenga per legge”. È considerato giusto, quindi, per questo, rispettare i diritti legali degli individui ed è, al contrario, ingiusta qualunque violazione degli stessi.

Ci sono eccezioni a questo primo punto. La privazione della libertà potrebbe derivare da una legge formale, nel caso di un crimine che viene punito con una pena detentiva, per esempio. Oppure ancora i diritti di cui gode un certo soggetto possono derivare da una legge che riteniamo ingiusta: si pensi al caso della schiavitù o alla legge del taglione. In casi simili potremmo ritenere giusto disobbedire a quella legge che attribuisce a qualcuno dei diritti che non dovrebbero appartenergli. Le opinioni al riguardo sono differenti. Ciò su cui, però, possiamo concordare è la possibilità stessa dell'esistenza di leggi ingiuste. Per questo, conclude Mill, la legge non può costituire il fondamento ultimo del nostro sentimento di giustizia. Ma se abbiamo detto che è ingiusto privare qualcuno dei diritti che la legge gli attribuisce, come facciamo a definire una simile legge ingiusta? Perché occorre distinguere tra diritti legali e diritti morali, sostiene Mill. La possibilità di una “separazione equa”, come la definisce nel saggio Sull'asservimento delle donne (1869) non rappresentava al tempo un diritto legale per una moglie maltrattata dal marito, ma certamente, ella possiede un diritto morale a tale separazione. Ed è per questo, quindi, che riteniamo ingiusta non solo qualunque privazione dei diritti legali, ma anche dei diritti morali delle persone, conclude Mill.

Il terzo esempio di ciò che riteniamo giusto e ingiusto, continua Mill, è legato alla possibilità che qualcuno non ottenga il bene che merita o ottenga il male che non merita. “Questa è forse la forma più chiara e pregnante in cui in genere la mente umana concepisce l'idea di giustizia”, chiosa Mill. Ma cosa si intende propriamente per merito? Una questione di grandissima attualità anche per noi oggi. In termini generali, spiega Mill, “Si intende che una persona merita il bene o merita il male a seconda che agisca in modo moralmente corretto o scorretto; in un senso più specifico, una persona merita di ricevere del bene da parte di coloro cui fa o ha fatto del bene, e merita il male da coloro cui fa o ha fatto del male”. Per Mill, dunque, il merito deriva dal principio di reciprocità positiva o negativa. Un quarto caso di ingiustizia si manifesta quando si manca alla parola data. “Violare un impegno, non importa se preso esplicitamente o implicitamente, oppure deludere le aspettative suscitate dalla nostra condotta, per lo meno quando queste aspettative le abbiamo fatte nascere in modo cosciente e volontario”. Il tradimento della fiducia pur non essendo quasi mai punibile per legge, pure viene ritenuto uno degli esempi più chiari di azione ingiusta.

Un quinto esempio di comportamento ingiusto è la violazione del principio di imparzialità. Il favoritismo, il nepotismo, la partigianeria, sono tutti esempi di comportamenti biasimevoli perché ingiusti. Simile al principio di imparzialità, troviamo poi il principio di uguaglianza che, come fa notare Mill, agli occhi di molti costituisce l'essenza stessa della giustizia. Eppure, anche questo principio trova dei limiti. “Ognuno di noi - infatti, scrive Mill - sostiene che l'uguaglianza è un imperativo della giustizia, a eccezione di quando ritiene che la disuguaglianza sia imposta dalla convenienza. C'è chi sostiene che è giusto dare uguale protezione ai diritti di tutti, e contemporaneamente però favorisce le più atroci disuguaglianze fra quei diritti”. Tutti hanno diritto ad una vita dignitosa - ne siamo tutti convinti - a patto, però, che le tasse che dovrebbero garantire tale diritto a tutti non incidano troppo sul mio reddito. Siamo favorevoli alla disuguaglianza anche quando facciamo dell'uguaglianza la bandiera della nostra esistenza. “Alcuni comunisti – scrive Mill - considerano ingiusto che i prodotti del lavoro della comunità siano ripartiti in base a un principio diverso da quello di una rigorosa uguaglianza; secondo altri, sarebbe giusto che ricevesse di più chi ha maggiori bisogni; altri ancora sostengono che chi lavora di più, o produce di più, o i cui servigi sono più preziosi per la comunità, può giustamente aspirare a una quota maggiore nella ripartizione dei prodotti. E in favore di ognuna di queste opinioni si potrebbe plausibilmente fare appello al nostro senso di una giustizia naturale”.

In conclusione, abbiamo visto che ognuna delle caratteristiche che comunemente attribuiamo al concetto di giustizia – rispetto dei diritti legali, di quelli morali, il merito, l'affidabilità, l'imparzialità e l'uguaglianza – presentano eccezioni e controesempi anche molto rilevanti. Qual è dunque il comune denominatore dell'idea di giustizia, ciò che le attribuisce la natura quasi di un istinto profondo nella sensibilità di ciascuno di noi? L'analisi di Mill procede ponendo una distinzione tra l'idea di giustizia e quelle associate ad altre forme di comportamento morale. Fare la carità o della beneficenza, nel suo esempio, è certamente un dovere morale ma che lascia discrezionalità a chi lo compie circa la scelta dell'oggetto del suo agire. Posso essere biasimato se decido di non fare beneficenza. Ma non posso esserlo per averla fatta per una buona causa e non anche un'altra causa, magari altrettanto buona. Cioè, in questo caso, i potenziali beneficiari non hanno titolo ad esigere la mia beneficenza.

Con le azioni giuste o ingiuste le cose stanno diversamente. Un'azione giusta è certamente un'azione morale, come nel caso della beneficenza, ma in più è un'azione alla quale, diversamente dal caso precedente, il soggetto aveva titolo. Un'azione giusta è qualcosa che il beneficiario può esigere legittimamente. Posso legittimamente esigere, per esempio, il giusto rispetto dei miei diritti, sia di quelli legali che di quelli morali. Posso esigere che tu rispetti, giustamente, gli impegni presi con me e la parola che li sugellava. Posso, analogamente, esigere di essere trattato in maniera imparziale e di essere considerato uguale ad ogni altro cittadino, in quanto a queste giuste aspettative. Questa è la struttura logica che Mill attribuisce alla nostra idea di giustizia. Manca ancora un passaggio fondamentale: dimostrare qual è il fondamento del “sentimento” che proviamo davanti ad una scelta ingiusta. L'idea di Mill è che l'impulso che proviamo e che ci fa desiderare di punire una persona che ha fatto del male a qualcuno “nasca spontaneamente da due sentimenti, entrambi estremamente naturali, e che o sono entrambi degli istinti o vi rassomigliano molto: l'impulso all'autodifesa e il sentimento della simpatia”. Ma questo sarà il tema di un prossimo “Mind the Economy”.

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