Mind the economy

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Informazione asimmetrica, contratti incompleti e gli agricoltori di Hume

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 26/09/2021

Scriveva Adam Smith nella sua “Ricchezza delle Nazioni” che «Chi offre ad un altro un affare di qualsiasi tipo, si propone di fare questo: dammi ciò che voglio, e avrai ciò che vuoi. Questo è il significato di ogni simile offerta; ed è in questo modo che otteniamo gli uni dagli altri la maggior parte di quei buoni uffici di cui abbiamo bisogno. Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo la nostra cena, ma dal rispetto che hanno per il loro interesse».

Questo passaggio, giustamente famoso, viene spesso citato per criticare l’antropologia smithiana apparentemente basata in maniera esclusiva sull’idea di autointeresse; in realtà quella stessa frase mette in luce un altro elemento fondamentale del pensiero economico moderno: la mano invisibile del mercato funziona bene solo se gli scambi sono simultanei. Il mutuo vantaggio promesso da Smith si materializza in modo quasi automatico solo se tra il momento in cui io ti cedo quello che tu vuoi e tu mi cedi quello che io voglio, non passa che un istante. Ogni qualvolta, infatti, le due prestazioni, dare e avere, si distanziano tra loro nel tempo, allora sorgono dei problemi e uno scambio differito diventa sempre uno scambio incerto.

L’aveva compreso bene David Hume, amico e maestro di Adam Smith. Hume descrive una situazione di questo tipo nel suo “Trattato sulla Natura Umana” facendo ricorso alla storia dei due agricoltori: «Il tuo grano è maturo oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se oggi io lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo nessun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia».

Contrariamente a quanto affermava Smith, qui vediamo che non basta il ricorso al self-interest affinché lo scambio abbia luogo; occorrerebbe la “benevolenza” o, meglio, la fiducia reciproca. Lo ha ribadito più di recente il premio Nobel Kenneth Arrow: «Le imprese collettive di qualsiasi tipo esse siano [...] diventano difficili o impossibili, non solo perché A può tradire B, ma anche perché seppure B voglia fidarsi di A, egli sa quanto improbabile sarà che A si fidi di lui. Ed è chiaro che questa mancanza di coscienza sociale rappresenta, di fatto, una perdita economica, intesa in senso molto concreto».

Ed ecco perché, continua sempre Arrow:

«La fiducia possiede un alto valore pragmatico. La fiducia è il lubrificante del sistema sociale [...] Il fatto di potersi fidare risparmia una enorme quantità di problemi [...] La fiducia, così come altri simili valori, incrementano l’efficienza del sistema, creano le condizioni per una maggiore produzione di beni o di qualsiasi altra entità».

Ma la fiducia è un bene scarso, si sa. Quando, centinaia di migliaia di anni fa, vivevamo in piccoli gruppi formati per lo più da soggetti geneticamente imparentati, la cooperazione si fondava sull’affidabilità delle promesse, a sua volta garantita dal vincolo di sangue. Con la crescita dimensionale delle formazioni umane, l’allentamento dei legami di parentela e la complessità che ne è derivata hanno reso necessario trovare altri strumenti formali per vincolare gli individui alle loro promesse.

C’era bisogno di garanzie, affinché gli scambi, anche quelli mutuamente vantaggiosi potessero concretizzarsi e portare quei risultati di efficienza e benessere che abbiamo descritto nel “Mind the Economy” della settimana scorsa. Per questo sono nati i contratti e, con essi, l’autorità dotata del potere di farli rispettare. In questo senso, nella loro essenza fondamentale, i contratti non sono altro che scambi di promesse rinforzati dall’esercizio di una sorveglianza esterna e, nel caso, da una coercizione all’adempienza. Ma i contratti sono entità complicata, sia giuridicamente che economicamente; sono, infatti, nella maggior parte delle volte “incompleti”.

Da un punto di vista giuridico un contratto è incompleto quando le parti non specificano in maniera precisa tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto di scambio (il prezzo, la quantità, la qualità, etc.). Da un punto di vista economico, invece, l’incompletezza contrattuale emerge ogni qual volta non è possibile specificare tutte le possibili future contingenze cui la relazione contrattuale può portare. Cioè, in pratica, sempre.

Un contratto completo è, infatti, in teoria, un accordo che prevede ciò che le parti dovrebbero fare in ogni possibile e concepibile stato del mondo futuro. Teoricamente, si diceva, perché in pratica questa previsione non è mai realizzabile. Le ragioni sono varie: negoziare un contratto che si avvicina alla completezza può essere un’operazione insostenibilmente lunga o incredibilmente costosa. In questo modo i benefici diventerebbero inferiori ai costi e, in questo modo, benché teoricamente possibile, scrivere un contratto completo diventerebbe economicamente improponibile.

Un altro ordine di ragioni alla base dell’incompletezza contrattuale attiene alla presenza di asimmetrie informative. Le parti, infatti, possiedono generalmente informazioni - private o non - osservabili: se è vero, per esempio, che la presenza di un lavoratore sul posto di lavoro può essere verificata attraverso un badge o altri strumenti di controllo, è altrettanto vero che non possiamo verificare in maniera precisa il suo impegno, la sua creatività, la disponibilità a lavorare in gruppo e a condividere informazioni, il suo atteggiamento generale, l’engagement nei confronti dell’impresa e, come queste, molte altre dimensioni pur fondamentali nell’ambito del suo rapporto di lavoro. Allo stesso modo quando porto l’auto dal meccanico per una riparazione, potrò verificare solo in maniera molto approssimativa la qualità del servizio ricevuto e la congruità del prezzo richiesto.

Potrei dover pagare per una prestazione non realmente necessaria o vedermi restituire un’auto non riparata a regola d’arte. L’asimmetria informativa può intervenire sia su caratteristiche ed azioni non osservabili così come su azioni e caratteristiche non verificabili, non utilizzabili, cioè, davanti ad un giudice per reclamare i nostri diritti contrattuali.

Il problema, come abbiamo detto, è che praticamente tutti i contratti sono economicamente incompleti, soprattutto quando questi regolano una relazione che si dispiega nel tempo. Non si tratta solo di ammettere un eventuale rischio di opportunismo di una o di entrambe le parti, ma anche solo di considerare la possibilità di eventi casuali, di forza maggiore, imprevedibili per loro stessa natura o i limiti della razionalità dei contraenti che possono compromettere la loro capacità di prevedere le contingenze future o di reagire in maniera ottimale alle stesse. Ma se, anche in casi così semplici, le implicazioni si presentano così complesse ed incerte, la spinta a stare lontano da simili contratti può diventare molto forte.

In realtà alcune soluzioni all’incompletezza dei contratti ci sono: si pensi, per esempio, al ruolo della reputazione. Anche se un contratto è incompleto ed espone le parti al rischio di opportunismo, i contraenti potrebbero preferire rinunciare ai guadagni immediati derivanti da comportamenti scorretti, benché leciti, per paura di farsi una “cattiva reputazione” e di perdere, in questo modo, i potenziali guadagni di lungo periodo derivanti da una relazione contrattuale stabile e duratura. Un meccanico diventa “il meccanico di fiducia” a seguito di una serie ripetuta di prestazioni soddisfacenti, nelle quali all’interesse di breve periodo si preferisce la regola di un autointeresse lungimirante.

Gli incentivi a investire in una buona reputazione mitigano in maniera considerevole i rischi connessi all’incompletezza. C’è poi naturalmente il ricorso ai tribunali. In questo caso la norma è quella di applicare le cosiddette “regole di default”: i giudici prendono in considerazione e proteggono quelle clausole che le parti avrebbero scelto se avessero potuto scrivere un contratto ideale non affetto da elevati costi di transazione o informazione asimmetrica. Questa seconda soluzione, rispetto alla prima, è decisamente meno efficiente perché il sistema giudiziario è costoso, lento e non sempre il risultato ottimale è scontato. Ma è pur sempre una soluzione.

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