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La vera economia della vita

Il segno e la carne/11 - L’abbondanza che non si perde e non ci perde è sempre dono, gratuità.

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 13/02/2022

"Come l’individuo, così le nazioni non faranno mai nulla se non saranno piene di se stesse, di amor proprio, di ambizione."

Giacomo Leopardi Zibaldone, 1728

La ricchezza di frutti e di talenti può diventare una maledizione e spingere verso un’idolatria che si manifesta nella moltiplicazione degli altarini a cui sacrifichiamo. Osea lo sa bene e ce ne spiega la grammatica.

La capacità di vedere il dolore profondo del mondo nascosto nell’anima più intima delle persone e degli esseri viventi è una grande ricchezza, anche se, dall’esterno, potrebbe apparire come una sofferenza aggiunta. Consente, a chi la possiede, di attingere a una dimensione più vera della vita delle persone e della natura, di gustare più frutti dell’albero della vita. Le generazioni passate erano più fornite di questa capacità, che cresceva con la durezza della vita – l’ho vista forte e chiara nelle mie nonne, in mia madre e in altre donne. È un’abilità composta di empatia e di pietà, di un po’ di virtù e di molto dono, che non solo fa vedere i dolori segreti dei cuori degli altri ma fa anche sentire, provare e condividere quello stesso dolore. I profeti, con la chiamata, ricevono questa capacità, e quindi vedono, sentono e condividono il dolore che a volte essi stessi generano nel popolo con le loro parole di verità. Senza considerare questa loro speciale e diversa sofferenza, non capiamo i profeti, la Bibbia, la vita. 

«Vite rigogliosa era Israele, che generava sempre frutti maturi; ma più abbondante era il suo frutto più moltiplicava gli altari; tanto più ricca era la terra più belle faceva le sue steli» (Osea 10,1). Nei commenti che in questi anni abbiamo fatto a vari libri biblici, puntualmente è tornato il tema della maledizione dell’abbondanza. Eccola, chiarissima, anche nel (difficile) capitolo 10 di Osea. La ricchezza e l’abbondanza di beni, che in molte pagine bibliche sono presentate come segno di benedizione divina, in altre pagine mostrano invece il loro lato oscuro. Quando da benedizione la ricchezza si trasforma in maledizione, perché l’abbondanza fa precipitare le persone e le comunità in una trappola di povertà. La ricchezza si chiude su se stessa, le persone dimenticano la vera origine di quei frutti e inizia la malattia mortale. In questi versi Osea ci dice infatti che la generosità della terra di Israele, la terra della promessa la cui fertilità straordinaria era parte della dote di YHWH, è diventata causa di tradimento. Quei grappoli rigogliosi non erano soltanto una faccenda economica; erano molto di più: l’avveramento della promessa, il segno che la parola di Dio era efficace perché era quella di un Dio vero e diverso dagli altri dèi. Viti, grano, fichi, erano dunque sacramenti di cielo, il nuovo eden ricreato dall’alleanza con i Padri dopo il peccato dell’Adam. Non erano i mattoni di Babele, erano i frutti della vita salvata da Noè, non le primizie di Caino il fratricida erano quelle di Abele il giusto. Sta qui il mistero della maledizione dell’abbondanza. Perché è proprio quella ricchezza benedetta, quella dote nuziale, quell’avveramento della promessa dell’unico Dio vero a diventare disgrazia, segno di idolatria e di corruzione religiosa, indicatore di un grave degrado della fede e dell’etica - che nella Bibbia sono la stessa cosa: «Dicono chiacchiere, giurano il falso, stipulano contratti: il diritto fiorisce come pianta velenosa nei solchi dei campi» (10,4).

Le steli sempre più belle erette agli dèi sbagliati, gli altari dedicati al dio Baal e agli idoli cananei, crescevano insieme alla ricchezza della terra: più abbondanti erano i frutti, più spettacolari diventavano le costruzioni per onorare gli dèi della fertilità: «Gli abitanti di Samaria trepidano per il vitellastro» (10,5). Quella ricchezza, espressione della benedizione di Dio per il suo popolo, diventava il primo mezzo per adorare idoli e rinnegare chi li aveva benedetti. La ricchezza qui non è in se stessa segno idolatrico, non è la "mammona" dei vangeli. L’idolo non è condannato perché aureo, la ricchezza non è diventata in sé dio. Di questi peccati Osea ci ha già parlato nel capitolo 8. Qui siamo invece di fronte a un processo idolatrico diverso – Osea ci sta facendo fare un corso avanzato sulla grammatica dell’idolatria. Non dobbiamo mai dimenticare che la Bibbia, soprattutto l’Antico Testamento, non ha, in genere, una visione negativa della ricchezza. L’oro diventa un problema quando è trasformato in dio o quando è usato per costruire altari ad altri dèi. Queste due diverse forme che assume l’idolatria, hanno la loro radice nel medesimo peccato: la progressiva perdita di contatto con la vera economia, quella dei frutti. Ci si dimentica che la ricchezza e i frutti della terra sono dono e provvidenza, e si comincia a pensare che dipendano da altre cause, dalla terra, e soprattutto da noi stessi. Così si diventa ingrati, auto-centrati, non si ringrazia più il datore dei doni. Gli idoli, infatti, non si ringraziano, verso di loro non si può esercitare la gratitudine perché in questi culti non c’è charis, gratuità. L’idolo lo si adora solo per interesse. L’auto-referenzialità, la chiusura al trascendente (gli idoli sono sempre immanenti), la scomparsa della gratitudine, sono i primi passi di questi movimenti idolatrici.

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220212 Il segno e la carne

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