Luigino Bruni

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Poveri e teoremi della «colpa»

Editoriale - Alla radice dell'attacco alle reti solidali

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/04/2019

Una delle più grandi novità morali dell’umanesimo cristiano ed europeo è l’aver liberato i poveri dalla colpa per la loro povertà. Il mondo antico ci aveva lasciato come eredità l’idea, molto radicata e diffusa, che la povertà non era altro che la maledizione divina meritata per qualche colpa commessa dalla persona o dai suoi avi. I poveri si ritrovavano così condannati due volte: dalla vita e dalla religione (il libro di Giobbe è una delle vette etiche dell’antichità proprio perché è una reazione contro l’idea della povertà come colpa), e i ricchi si sentivano tranquilli, giustificati e doppiamente benedetti.

In Europa, però, non sono state le città e gli Stati con le loro istituzioni politiche a liberare i poveri dalla loro maledizione. Anzi, fin dai tempi dell’im pero romano e poi per tutto il Medioevo e l’Età moderna, gli statuti e le leggi cittadine erano molto attenti a individuare i cosiddetti poveri e mendicanti volontari e quindi colpevoli, per poi cacciarli fuori dalla mura cittadine. Non dobbiamo dimenticare che la storia politica delle città europee è anche (e a tratti soprattutto) una storia di esclusione di poveri, ebrei, migranti, eretici e vagabondi, perché non erano in possesso di quella "affidabilità" necessaria per entrare nel club dei mercati delle nuove città. Ma, grazie a Dio, le istituzioni europee non erano soltanto quelle politiche delle città borghesi e mercantili: c’erano anche le istituzioni nate dalla fede religiosa. Il cristianesimo aveva portato una grande innovazione in tema di povertà. Una religione fondata da un uomo non ricco e con molti apostoli e discepoli poveri, e che osava chiamare i poveri "beati", in un contesto religioso e culturale che scartava e malediva i poveri.

E che nella sua vita fece di tutto per mostrare che i malati e i poveri non erano colpevoli della loro malattia e/o povertà (si pensi al cieco nato, al paralitico, ai lebbrosi...). La Chiesa dei primi tempi ha continuato questa rivoluzione etica, e sant’Ambrogio poteva scrivere: «Non è vero che i poveri sono maledetti» (La vigna di Nabot). Lo doveva dire con forza, perché era ben cosciente di andare contro la mentalità corrente. Questa grande novità religiosa e sociale produsse, secoli dopo, Francesco e gli ordini mendicanti, che vissero e mostrarono un’idea di povertà come via di liberazione e di felicità che irrorò il secondo millennio. E quindi i tanti carismi sociali della modernità, che guardarono i poveri non come maledetti, ma come immagine del Cristo povero e sofferente.

C’è questa cancellazione dello stigma di maledizione alla radice dei molti ospedali, scuole, orfanotrofi che hanno fondato il welfare europeo. E mentre i politici di ieri di oggi discutevano e discutono sulle varie categorie di poveri (volontari e involontari, meritevoli e immeritevoli...), quei carismi sociali ci dicevano e ci dicono che il povero è povero è basta, ed è la sua condizione oggettiva di bisogno che ce lo rende prossimo e in quanto tale meritevole di aiuto. Il samaritano non aiuta l’uomo vittima dei briganti perché era portatore di qualche merito, ma perché era una vittima ed era un uomo ("Un uomo scendeva..."). La colpa non è mai stata una buona chiave di lettura per capire e curare le povertà, perché ogni volta che iniziano le analisi delle colpe se ne trova sempre una per condannare un debole.

Sono stati i carismi, non le istituzioni politiche delle città e poi degli Stati moderni, a superare la tremenda distinzione tra poveri buoni e poveri maledetti, a far chiudere quegli "ospedali" dove i poveri colpevoli erano rinchiusi e sottoposti ad autentici lavori forzati di reinserimento sociale, ben noti a molte città europee dei secoli passati. Senza lo sguardo diverso sulla povertà e sui poveri di centinaia e migliaia di sacerdoti, laici, suore e frati, l’Europa sarebbe stata diversa e certamente peggiore per i poveri – e quindi per tutti, perché la condizione dei più poveri e la loro considerazione sociale restano i primi indicatori della moralità di una civiltà.

Da qualche anno questa diversa cultura europea della povertà è entrata profondamente in crisi. Le cause sono molte, ma certamente un fattore decisivo lo ha svolto e lo svolge la cultura del business, che ormai sta diventando la cultura dominante in ogni ambito di vita in comune. Una cultura economica, di matrice prevalentemente anglosassone, che in nome della meritocrazia sta reintroducendo ovunque l’arcaica tesi della povertà come maledizione e colpa. Perché? La logica economica è all’origine delle religioni antiche, che nascono attorno all’idea mercantile di scambio tra gli uomini e le loro divinità.

Il primo homo oeconomicus è stato l’homo religiosus, che ha letto la fede come commercio, come dare e avere con il divino, come debiti e crediti da gestire tramite offerte e sacrifici. La Bibbia e poi il cristianesimo hanno lottato con tutte le loro forze per liberare gli uomini dall’idea economica di Dio. Oggi, con l’affievolimento culturale della religione ebraico-cristiana, nell’orizzonte secolarizzato si è riaffacciata l’antica idea del dio economico, e quindi delle colpe, dei meriti, dei demeriti, di nuovi sacrifici e nuovi idoli. Nel "crepuscolo degli dei" ci siamo risvegliati incatenati da una religione-idolatria che riporta con sé anche l’idea arcaica del povero come colpevole. Ma il suo colpo di genio più grande sta nel riuscire a presentarcela come una innovazione morale, come una forma più alta di giustizia, semplicemente chiamandola con un nome evocativo: meritocrazia.

Non capiamo il recente attacco alle reti della solidarietà e al mondo del Terzo settore in Italia (è utile leggere o rileggere l’intervista a Zamagni qui pubblicata domenica 28 aprile) senza prendere molto sul serio il progetto ideologico della meritocrazia e della cultura del business che lo veicola. La meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della condanna morale del povero, che prima interpreta la mancanza di (alcuni tipi di) talento come colpa, poi condanna il povero come demeritevole e infine lo scarta insieme a chi si occupa di lui.

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