I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 02/06/2024
Quello di oggi è il sedicesimo ed ultimo articolo che dedichiamo al pensiero filosofico e politico di John Rawls. Da quando, nel gennaio dell’anno scorso, ho cominciato questa esplorazione intorno all’idea di giustizia è certamente il pensatore a cui ho dedicato più spazio e un’analisi più dettagliata. La ragione è presto detta. John Rawls è il più importante filosofo politico del XX secolo e la sua opera costituisce un riferimento imprescindibile per chiunque voglia ragionare in maniera rigorosa sui temi della giustizia, dell’uguaglianza e della libertà. Intorno a questa triade classica si sviluppa il suo pensiero e intorno a questi tre concetti si concentrano le sfide intellettuali principali che egli ha voluto affrontare trovando soluzioni originali e profonde.
Oltre l’utilitarismo
La prima sfida che Rawls si pone è quella del superamento della visione utilitaristica che fino ad allora aveva dominato il pensiero politico occidentale attraverso la definizione di un’idea di giustizia sociale più complessa e profonda, pienamente rispettosa dei diritti dei singoli e non solo del benessere della società. La seconda sfida è quella che vede il superamento della tensione tra l’idea di libertà e quella di uguaglianza attraverso l’elaborazione di una originale proposta di liberalismo socialdemocratico. La terza sfida, infine, è quella che arriva dal pluralismo delle società contemporanee. Comunità di uomini e donne che si devono reggere su un potere legittimo e stabile nonostante le visioni del mondo differenti e persino incompatibili che i loro singoli membri di solito abbracciano.
Per quanto riguarda il primo punto la mossa di Rawls è audace. Egli, infatti, rigetta la visione utilitaristica per la quale la giustizia politica riguarda il modo in cui le istituzioni determinano le distribuzioni aggregate e la possibilità di massimizzare il benessere complessivo di una comunità. Rawls è più interessato ai singoli cittadini e alla possibilità che questi possano godere di un insieme minimale di “beni primari”, inalienabili e incomprimibili. Alla base dell’idea di giustizia politica sta quindi la capacità delle istituzioni di rispettare la libertà e i diritti dei cittadini che non possono essere subordinati a nient’altro. Ciò significa che un incremento del benessere della maggioranza non potrà mai giustificare la riduzione della libertà di una minoranza, come invece è naturale in una prospettiva utilitaristica. Rawls, nella tradizione che da Hobbes arriva fino a Kant, fonda la nascita delle istituzioni che dovranno regolare la convivenza sociale su un contratto razionale basato sul mutuo vantaggio, sull’imparzialità e sulla reciprocità.
Le critiche dei commentatori
L’idea di giustizia rawlsiana ha suscitato non poche critiche da parte dei commentatori. I libertari, sulla scia di Robert Nozick condannano senza appello ogni politica di redistribuzione vista come una rapina o una forma di schiavitù. Una critica meno radicale ma non per questo meno importante arriva da altri autori, come Martha Nussbaum e David Gauthier, per esempio, che pur vicini in spirito all’impostazione del filosofo americano, mettono in luce la mancanza di inclusività del contratto sociale rawlsiano. Egli, infatti, assume che nella posizione originaria si trovino a negoziare soggetti razionali, liberi, “membri pienamente cooperativi della società per la loro intera vita”, come scrive.
Soggetti razionali, liberi e pienamente cooperativi perché solo tra soggetti con queste caratteristiche può generarsi un accordo di scambio che sia mutuamente vantaggioso. È, infatti, la possibilità di guadagnare reciprocamente qualcosa dallo scambio a fondare e a legittimare il contratto. La nostra reciproca possibilità di offrire qualcosa all’altro ne costituisce, in questo senso, la ragione prima. Ecco allora la necessità di considerare cittadini che “benché non hanno uguali capacità, hanno un minimo essenziale di capacità morali, intellettuali e fisiche tali da renderli membri pienamente cooperativi della società”, continua Rawls. Ciò significa che ognuno è supposto avere capacità tali da consentirgli di giocare un ruolo attivo nella società e che nessuno abbia bisogni particolari o particolarmente difficili da soddisfare. Come è facile capire tale assunzione di uguaglianza ha forti implicazioni per coloro che hanno bisogni speciali o disabilità gravi. David Gauthier sul punto è esplicito, quando afferma che “Queste persone non sono parte delle relazioni morali cui la teoria contrattualista da origine”. Analogamente “Cosa hanno da dirci – si chiede Martha Nussbaum - le moderne teorie contrattualiste della giustizia circa [i problemi della vulnerabilità e dipendenza]? Praticamente niente”.
Tra benevolenza e diritto
In questo modo la giustizia negoziata dai “razionali, liberi e cooperativi”, si riverbera sugli “esclusi” solo sul piano della benevolenza e non su quello del diritto. “In questo senso – scrive Catherine Audard - molti lettori di Rawls potrebbero condividere la sensazione che egli non stia affrontando alcune di quelle che considerano le questioni di giustizia più urgenti nelle nostre società. (…) Cosa succede a quei membri che non possiedono le capacità richieste per stipulare contratti e accettarne le condizioni come cittadini pienamente cooperanti? Sono esclusi dalla giustizia?”. Altri critici che prendono di mira le conseguenze sulla teoria della giustizia che derivano dalla sua radice contrattualista si focalizzano invece sulla dimensione della giustizia globale nei confronti degli abitanti innocenti di paesi illiberali e violenti e infine sull’incapacità della teoria rawlsiana di estendere il concetto di giustizia agli animali, un tema sul quale, invece l’utilitarismo ha molto da dire. Si ricordi che quello che è con tutta probabilità il più importante filosofo utilitarista contemporaneo è quel Peter Singer autore di Liberazione animale testo fondante del movimento animalista.
Conciliare libertà ed uguaglianza
La seconda grande sfida della costruzione rawlsiana è relativa al tentativo di conciliare libertà ed uguaglianza. Istituzioni politiche che promuovono l’uguaglianza, in genere, attuano politiche redistributive, dal punto di vista della libertà vengono viste negativamente a causa del fatto che raramente la redistribuzione viene messa in atto volontariamente da parte di quei cittadini a cui vengono sottratte risorse. Per contro i liberali, tradizionalmente, non considerano in maniera negativa le disuguaglianze che si generano dopo aver assicurato pari opportunità. Tali diseguaglianze, infatti, vengono viste come il frutto di una responsabilità personale o di differenze naturali cui la politica non può mettere rimedio e con le quali le istituzioni non devono avere nulla a che fare. Per Rawls le cose sono differenti perché la giustizia riguarda la struttura di base di una società, le sue istituzioni fondamentali. In questo senso la parità formale delle opportunità non è sufficiente ad una società giusta perché se, poi, nonostante le pari opportunità qualcuno continua ad essere così povero o svantaggiato da non poter partecipare alla vita sociale e politica, o perde l’autostima necessaria a sentirsi pienamente cittadino, egli verrà deprivato di alcuni dei beni primari che Rawls ritiene irrinunciabili. Le pari opportunità non bastano dunque se non si garantisce l’accesso ai beni primari a tutti i cittadini. Non può esserci vera libertà senza una certa dose di uguaglianza.
Anche questa prospettiva ha attirato molte critiche sia a destra, da parte dei liberali e dei libertari, che da autori di sinistra come Gerald Cohen. In conclusione, è possibile affermare che la trasformazione rawlsiana del liberalismo ha avuto effetti profondi sul pensiero politico contemporaneo. Come afferma ancora Catherine Audard, tale trasformazione “Ha rafforzato la difesa della democrazia costituzionale separandola dalle preoccupazioni puramente liberali per la libertà individuale. Ha introdotto la consapevolezza del peso delle strutture sociali di base ineguali e della minaccia che esse rappresentano per la libertà e la sicurezza. Ha inoltre dato nuova urgenza alla difesa congiunta dei diritti politici, civili e sociali e all’opposizione ai governi che continuano a sostenere che la lotta per la crescita economica può giustificare il sacrificio dei diritti fondamentali”.
La terza grande sfida, quella che ha occupato Rawls nell’ultima parte della sua vita, può essere definita come la sfida del pluralismo. Un pluralismo che si manifesta a diversi livelli. Da una parte riguarda l’ambito statuale nel quale si scontrano le differenti visioni del mondo che i cittadini adottano, dall’altra c’è il livello relativo al rapporto tra i diversi stati rispetto ai diversi regimi politici che si incontrano e si scontrano nell’arena delle relazioni internazionali.
Le visioni del mondo
Com’è possibile immaginare una struttura di base giusta che sia al contempo legittima e stabile quando i cittadini hanno visioni del mondo sia religiose che laiche ragionevoli ma in contrasto e perfino del tutto incompatibili tra loro? Questo è il problema del pluralismo de facto, come lo chiama Rawls, che caratterizza i moderni stati democratici. Vengono proposti due concetti fondamentali per risolvere tale questione, due concetti, quello di “consenso per intersezione” e quello di “dovere di civiltà”, di cui a lungo abbiamo parlato nelle settimane scorse. Il “consenso per intersezione” è dato da quel nucleo fondamentale di valori profondi che ognuna delle visioni del mondo presenti un una società democratica devono possedere. Cercare tale consenso significa andare alla ricerca e valorizzare ciò che ci unisce piuttosto che ciò che ci divide. A questo nucleo comune di valori condivisi si unisce il “dovere di civiltà” che prescrive che in ambito politico ogni provvedimento che abbia valore vincolante per tutti i cittadini non possa fondarsi su valori che appartengono solo ad una singola visione del mondo. Tali convinzioni personali e private non possono governare la sfera pubblica, non possono essere fatte valere come argomento su cui fondare scelte pubbliche.
In ambito internazionale, invece, la visione liberale di Ralws prende la forma di un nuovo diritto dei popoli. Un insieme di regole su cui troveranno l’accordo gli stati che fanno parte della “Società dei Popoli” formata da stati propriamente liberali ma anche da stati “decenti” che, pur non essendo in tutto e per tutto democratici e liberali, non sono neanche aggressivi verso gli altri stati e rispettano al loro interno i diritti umani fondamentali e adottano procedure di consultazione popolare. Una sfida enorme quella della stabilità e della pace giusta tra gli stati visto che oltre quelli che formano la “Società dei Popoli” ve ne possono essere altri retti da regimi assolutistici ed altri ancora che sono, per la loro aggressività e per il disprezzo dei diritti umani, veri e propri stati “fuorilegge”.
L’utopia realistica
La sfida del pluralismo nelle relazioni internazionali che Rawls ha affrontato con originalità e rigore forse non è stata vinta del tutto ma certamente ha dato origine ad una nuova disciplina, quella della cosiddetta giustizia globale, il cui sviluppo, davanti ai drammi dell’oggi, si rende mai come prima necessario.
L’ideale centrale del pensiero di John Rawls è stato quello di un’“utopia realistica”. La possibilità di dimostrare, cioè, la possibilità anche solo teorica di raggiungere attraverso un percorso ragionevole di transizione una società giusta e stabile. Ciò che egli ha cercato di fare è stato di dimostrare la fattibilità di tale percorso e la razionalità di un tale assetto istituzionale. Ci si potrebbe chiedere, però, se non sia più giusto considerare il nostro valore come singoli e come comunità in base alle vite che effettivamente viviamo e non in base a quelle che potremmo vivere. Non si può certamente negare che l’effettiva realizzazione concreta di tale ideale sia importante, ma Rawls, come ci ricorda Thomas Pogge, uno dei suoi ultimi allievi, “Finché siamo giustamente fiduciosi che una vita collettiva autosufficiente e giusta tra gli esseri umani sia realisticamente possibile, possiamo sperare che noi o altri un giorno, da qualche parte, riusciremo a raggiungerla”. Darci come obiettivo finale un’“utopia realistica” non significa scegliere un ideale irraggiungibile, ma piuttosto - questo era l’approccio rawlsiano - mettersi nelle condizioni per poter iniziare a realizzare quella utopia. La filosofia politica di Rawls può affiancare e supportare tale impresa perché è in grado di neutralizzare il cinismo e la rassegnazione che sono i nemici principali di ogni progetto di riforma sociale.