I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 19/05/2024
Nel suo ultimo libro, il Diritto dei Popoli, John Rawls esplora la possibilità di estendere i principi di base della sua visione della “giustizia come equità” non più solo alle relazioni tra cittadini nell’ambito delle istituzioni di uno stato, ma ai rapporti tra popoli e stati differenti. Nel far questo introduce la distinzione fondamentale, da una parte, tra stati liberali e stati “decenti”. I primi sono quelli che rispettano i diritti umani, implementano processi di partecipazione democratica e non sono aggressivi.
I secondi, pur non essendo del tutto liberali, prevedono comunque una qualche forma di partecipazione democratica alle decisioni pubbliche e non sono aggressivi verso gli altri stati. Gli stati “decenti” assieme agli stati propriamente liberali vanno a formare la “Società dei Popoli”, una comunità internazionale capace, nell’impostazione rawlsiana, di darsi un Diritto dei Popoli fatto da regole e principi condivisi, disposta a seguirne i dettami alla ricerca di un ordine internazionale pacifico e mutuamente vantaggioso. Alla “Società dei Popoli” si affiancano altre tre tipologie di stati: quelli retti da un regime caratterizzato da un assolutismo benevolente, quelli gravati da difficoltà di natura economica e gli stati “fuorilegge”, aggressivi e disposti a dichiarare guerra agli altri stati se questo dovesse servire a perseguire i loro interessi. Il filosofo dedica al rapporto tra stati liberali e stati “decenti” che formano la “Società dei Popoli”, quella che definisce la “teoria ideale”.
Le modalità di relazione con gli altri stati, invece, sono oggetto di una “teoria non-ideale”. Attraverso la “teoria ideale”, scrive Rawls “Estendendo una concezione liberale della giustizia, abbiamo sviluppato una concezione ideale di un Diritto dei Popoli per la società dei Popoli ben ordinati, cioè dei popoli liberali e dignitosi. Questa concezione deve guidare questi popoli ben ordinati nella loro condotta reciproca e nella progettazione di istituzioni comuni per il reciproco vantaggio”.
La “teoria non-ideale”, invece, scrive sempre Rawls, si occupa “delle questioni che sorgono dalle condizioni altamente non ideali del nostro mondo, con le sue grandi ingiustizie e i diffusi mali sociali. Partendo dal presupposto che esistano nel mondo alcuni popoli relativamente ben-ordinati, ci chiediamo nella teoria non ideale come questi popoli dovrebbero comportarsi nei confronti dei popoli non ben ordinati”. Tali questioni hanno a che fare principalmente con due fondamentali dimensioni delle relazioni internazionali: la questione della guerra, da una parte e quella del dovere di assistenza nei confronti degli stati economicamente svantaggiati, dall’altra.
Il primo aspetto riguarda quei regimi che scelgono di tirarsi fuori dalla Società dei Popoli e di non rispettare il Diritto dei Popoli. “Questi regimi pensano che una ragione sufficiente per impegnarsi in una guerra sia che la guerra fa avanzare, o potrebbe far avanzare, gli interessi razionali (non ragionevoli) di quel regime stesso. Questi regimi li chiamo stati fuorilegge. L’altro tipo di teoria non ideale – continua sempre Rawls - si occupa delle condizioni sfavorevoli, cioè delle condizioni di società le cui circostanze storiche, sociali ed economiche rendono difficile se non impossibile il raggiungimento di un regime ben ordinato, liberale o dignitoso. Io chiamo queste società, società svantaggiate”.
Come abbiamo visto la settimana scorsa, nell’ambito della teoria ideale, Rawls individua cinque principi fondamentali del Diritto dei popoli. Il quinto principio fa riferimento all’uguaglianza formale che vincola il diritto alla guerra dei membri della Società dei Popoli solamente a ragioni di legittima difesa. “I popoli ben-ordinati – afferma Rawls - non dichiarano guerra gli uni contro gli altri; entrano in guerra solo quando credono sinceramente e ragionevolmente che la loro incolumità e protezione siano seriamente messe in pericolo dalla politica espansionista degli stati fuorilegge”, perché nell’ambito del Diritto dei Popoli, per quanto possa sembrare paradossale, lo scopo di una guerra giusta non può che essere la ricerca di una pace giusta e duratura.
Ma il tema principale dell’analisi rawlsiana della guerra riguarda non tanto lo jus ad bellum ma il cosiddetto jus in bello, non tanto l’analisi delle ragioni legittime di un’entrata in guerra, ma le condizioni e le limitazioni che devono essere rispettate nella sua condotta. Il primo elemento da chiarificare è quello relativo alla responsabilità dei soggetti che, in varie forme, partecipano alla guerra. A questo riguardo occorre porre una distinzione tra i leader e i funzionari politici, da una parte e i soldati e la popolazione civile, dall’altra. La ratio di questa distinzione risiede nel fatto che essendo gli stati “fuorilegge” stati non democratici, la responsabilità della scelta di dichiarare guerra non può essere fatta ricadere neanche indirettamente sulla popolazione civile. La responsabilità è dei leader e delle élite che controllano lo stato. Sono loro i responsabili. “Hanno voluto la guerra – scrive Rawls - e, per questo motivo, sono criminali. Ma la popolazione civile, spesso tenuta nell’ignoranza e influenzata dalla propaganda statale, non ne è responsabile”. Sulla base di questa considerazione si fonda, per esempio, l’assoluta condanna che Rawls fa dell’uso dell’atomica da parte degli americani su Hiroshima e Nagasaki. Uso che si risolve in un attacco mirato principalmente alla popolazione civile, incolpevole da un punto di vista morale della condotta dei loro capi. Anche la responsabilità dei soldati, in questo senso, è da ritenersi limitata. Questi, come i civili, non possono essere ritenuti responsabili della decisione di entrare guerra.
“Perché i soldati – scrive ancora il filosofo - sono spesso arruolati e costretti in altri modi alla guerra; sono indottrinati coercitivamente nelle virtù marziali; e il loro patriottismo è spesso sfruttato crudelmente”. A differenza dei civili, i soldati, però, possono essere attaccati non perché responsabili della guerra, ma perché coloro che vengono attaccati dagli stati “fuorilegge” possono non avere altra scelta che difendersi. Questa difesa deve rispettare, per quanto possibile, i diritti umani della popolazione civile e dei soldati avversari. Le ragioni che Rawls mette a base di questa prescrizione sono due: la prima riguarda il fatto che secondo il Diritto dei Popoli anche il nemico, come tutti gli altri esseri umani, non può essere escluso in nessun caso, neanche in guerra, dal godimento di tali diritti. La seconda ragione riguarda l’esempio che tale condotta può fornire a soldati e civili dello stato nemico, in particolare, con l’intento di prefigurare già durante la guerra le condizioni della pace che desiderano creare con lo stato che oggi li attacca. Questa è una responsabilità precipua dei politici e delle classi dirigenti dei paesi ben-ordinati. Ed è una responsabilità importantissima, perché, come scrive ancora Rawls “Il modo in cui viene combattuta una guerra e le azioni compiute per porvi fine continuano a vivere nella memoria storica delle società e possono o meno gettare le basi per guerre future. È sempre dovere dell’autorità politica adottare questa visione a lungo termine”.
Nella sua discussione sullo jus ad bellum e lo jus in bello, delle ragioni, cioè che legittimamente possono portare ad un’entrata in guerra e delle condizioni della sua legittima condotta, Rawls ammette un esplicito debito di riconoscenza nei confronti di Michael Walzer e del suo Guerre giuste e ingiuste (Laterza, 2009) – “an impressive work”. Nella prefazione di quel libro Walzer, filosofo di origini ebraiche scrive “È mia intenzione difendere anche in questa occasione (la maggior parte degli) argomenti con i quali giustificavamo la nostra opposizione alla guerra americana in Vietnam, ma al tempo stesso, e cosa più importante, mi propongo soprattutto di difendere il diritto a ragionare”.
Come non cogliere l’importanza di questo diritto a ragionare sulle radici della guerra di cui parla Walzer specialmente in questi tempi, alla luce della situazione internazionale che stiamo vivendo e dei conflitti che questa alimenta. Un esempio particolarmente rilevante, specialmente oggi, dell’esercizio di questo “diritto a ragionare” riguarda l’analisi delle condizioni della guerra asimmetrica tra uno stato liberale e i movimenti terroristi. Nel saggio intitolato Terrorismo: critica delle scusanti, Walzerscrive “Oggi nessuno difende il terrorismo, nemmeno quelli che lo praticano. Questa pratica è indifendibile (…) non soltanto uccide persone innocenti, ma insinua la paura nella vita quotidiana, la violazione degli spazi privati, l’insicurezza di quelli pubblici, la coercitività senza fine delle precauzioni necessarie”.
Il terrorismo è indifendibile sul piano morale anche da parte di chi lo pratica, eppure, nonostante la sua immoralità restano comunque molte altre possibili scusanti di natura ideologica al suo utilizzo. “Le organizzazioni terroriste non sono prive di sostenitori – scrive Walzer - un sostegno indiretto ma tutt’altro che inefficace. Esso prende la forma di descrizioni e spiegazioni apologetiche, una litania di scusanti che mina decisamente la nostra conoscenza del male”. Una conoscenza che Walzer sente il bisogno di integrare e rafforzare proprio con una critica sistematica delle scusanti la cui erroneità non può essere data per scontata, ma va discussa e argomentata. E allora apriamola questa discussione, oggi. Innanzitutto, con tutti quei giovani che in buona fede contestano una realtà che gli appare comunque tremenda, nella quale vedono - forse erroneamente? - la sopraffazione del più debole da parte del più forte. E poi con tutta l’opinione pubblica alla quale è giusto non fornire troppo facili semplificazioni e, in ultimo, nell’ambito della comunità internazionale dove, invece, purtroppo, la polarizzazione e non la discussione sembra aumentare di giorno in giorno.
Proviamo, allora, ad analizzarle queste scusanti che vengono addotte per giustificare la pratica del terrorismo. Quella più comune è quella secondo cui il terrorismo rappresenterebbe l’ultima possibilità a cui si decide di ricorrere soltanto dopo aver constatato il fallimento di ogni altra strada percorribile. Ma se sono state percorse tutte le strade possibili, si potrebbe replicare, allora non di dovrebbe andare oltre. Si dovrebbe rinunciare. Si dovrebbero accettare le conseguenze del fallimento. Nessuna altra opzione è disponibile. “Ma questa risposta – scrive Walzer - si limita a riaffermare il principio, a ignorare la scusante: questa risposta non tiene conto della disperazione dei terroristi. Qualunque sia la loro causa, dobbiamo riconoscere che, data la loro dedizione, l’unica cosa che non possono fare è «non fare più nulla”.
Sarebbe però necessario chiedersi se davvero le si sono provate tutte le alternative possibili, se davvero sono state imboccate proprio tutte le strade a disposizione. È stato compiuto veramente ogni sforzo? Ogni aiuto è stato richiesto? Ogni possibile azione è stata messa in atto? Rispondere affermativamente a queste domande appare sempre molto complesso. Forse allora sarà necessario ammettere che quella del terrorismo non è davvero l’ultima strada percorribile, ma solo e drammaticamente la più veloce e la più sbrigativa. Scrive ancora Walzer “Lo stesso argomento vale per i funzionari statali che sostengono di averle provate «tutte» e sono ora costretti a uccidere gli ostaggi o a bombardare i villaggi dei contadini. Immaginiamoci queste persone convocate davanti a un tribunale e obbligate a rispondere alla domanda: «Che cosa avete provato a fare, esattamente?». C’è qualcuno che crede davvero che potrebbero fornire un elenco plausibile?”. Torniamo per un attimo a Rawls. Nella sua analisi dei principi che regolano la condotta della guerra difensiva da parte della “Società dei Popoli”, egli esclude in linea generale la legittimità di qualunque forma di coinvolgimento dei civili nel conflitto, con una sola eccezione: quando non ci si trovi di fronte ad una “emergenza suprema”. Walzer sul tema ha una posizione leggermente differente. È dubbioso sul fatto che il terrorismo possa essere giustificato sulla base di una qualunque “emergenza suprema”, ma restringe il campo solo al caso in cui “L’oppressione a cui i terroristi sostengono di reagire è di carattere genocida”.
C’è un secondo tipo di scusante, quella che fa riferimento alla lotta dei movimenti di liberazione nazionale contro l’azione di uno stato oppressore. L’uso del terrorismo, in questo caso, ci dice Walzer, è controproducente per gli stessi sostenitori della causa. Il ricorso al terrorismo, infatti, evidenzia da una parte la debolezza del movimento verso lo stato oppressore, ma anche quella nei confronti del loro popolo, che evidentemente non ha mostrato un’adesione maggioritaria e convinta alla causa di liberazione. Questa seconda scusante dunque rappresenta piuttosto un’aggravante. Il terzo tipo di giustificazione fa riferimento al fatto che, pragmaticamente, il terrorismo funziona e per questo è lecito utilizzarlo per raggiungere i propri scopi. La validità di tale giustificazione si fonda su un fatto empirico che pare, però, trovare maggiore supporto nei desideri dei suoi proponenti che nella storia dei conflitti. L’ultima scusante, infine, a cui fa riferimento Walzer dice essenzialmente che ogni forma di politica, per la natura stessa del potere che esercita, si basa sul terrore e la coercizione e che soprattutto l’esercizio dell’oppressione anche da parte di governi legittimi non è altro che una forma mascherata di terrorismo. Quelli che comunemente chiamiamo terroristi semplicemente hanno gettato la maschera cinica che ancora la politica tradizionale veste per nascondere il suo lato più brutale.
Tutte queste scusanti, in un modo o nell’altro, si fondano su un fatto preliminare: l’esistenza di oppressi ed oppressori. Siamo oggi, forse come non mai, davanti ad un dilemma profondo nel dover porre questa distinzione perché potremmo dover ammettere l’esistenza non solo di un terrorismo degli oppressi ma anche di condotte terroristiche da parte degli oppressori. E’ necessario capire allora cos’è che fa la differenze. In che modo è possibile operare questa distinzione. E non sempre tale differenza è netta perché, come scrive Walzer “Il messaggio dei terroristi [che siano oppressi o oppressori] è lo stesso in entrambi i casi: la negazione della dignità e dell’umanità dei gruppi, tra i quali essi fanno le loro vittime”. Dovremmo iniziare a chiederci tutti insieme, allora, chi è che oggi nega questa dignità? E, questione forse ancora più importante, chi è rimasto a reclamarla con voce chiara e squillante? Dov’è il diritto dei popoli e dove sono i popoli ben-ordinati che possono dare esempio di tolleranza, accoglienza, rispetto dei diritti umani? E dove sono i leader illuminati e giusti, quelli dei paesi in guerra e quelli dei paesi in pace? “Chi sceglie la politica del terrore – scrive ancora Walzer - agisce «liberamente» (…) Abbiamo l’obbligo morale di non scusare mai questi leader”. Non scusare mai questi leader. Sono loro i responsabili morali delle azioni ostili. Ed è per questo che repressione e ritorsione non devono ripetere i torti del terrorismo. E questo vuol dire che devono concentrarsi sistematicamente solo ed esclusivamente sui terroristi. “Mai sulle persone per conto delle quali i terroristi avanzano la pretesa di agire, perché si tratta di una pretesa sempre dubbia – sottolinea Walzer - anche quando è in buona fede: il popolo non autorizza i terroristi ad agire in proprio nome”. Repressione e ritorsione, dunque, hanno senso e legittimità solo se guidate dagli stessi principi che vietano il terrorismo stesso.
Ma torniamo alla questione fondamentale: in che direzione dovremmo andare, quindi, se tutte le possibilità dovessero sembrare esaurite? Innanzitutto, occorre affermare ancora una volta che le strade da percorrere, per definizione, non si esauriscono mai del tutto. Ci possono essere strade in discesa ed altre in salita, strade più agevoli ed altre più impervie. Ma soprattutto occorre ribadire che una risposta alternativa al terrorismo c’è. Si tratta affrontare alla radice la questione dell’oppressione contro cui i terroristi dicono di lottare. Non sto affermando che tale oppressione sia la causa delle azioni terroristiche. Quella, come abbiamo già detto, risiede in una scelta razionale di quei leader cinici e malvagi che decidono di scatenare la campagna terroristica. Tuttavia, non possiamo far finta di non sapere che l’oppressione rappresenta la benzina che alimenta tali scelte, così come lo è la dignità ferità. “I terroristi sfruttano l’oppressione –avverte Walzer - l’ingiustizia e la miseria umana in genere, almeno per ottenere delle scusanti; è difficile dubitare che l’oppressione li rafforzi. È una ragione per intervenire a difesa degli oppressi?” Certamente lo è e non sarebbe certo l’unica. Sicuri del fatto che non sarà mai possibile sconfiggere la brutalità dell’oppressione con il terrorismo così come sarà impossibile sconfiggere il terrorismo con la brutalità dell’oppressione.
Credits foto: © Diego Sarà