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Il bene e il nome delle donne

Profezia è storia/18 - Soprattutto nell’ora della crisi le madri sanno sempre ciò che più vale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/10/2019

“Sappi, carissima, che la fine della mia vita è ormai prossima. Perciò affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli... Ti prego ancora di portarmi di quei dolci, che eri solita darmi quando mi trovavo ammalato a Roma”
Lettera di S. Francesco a Frate Jacopa,
Fonti Francescane 253-255

I miracoli di Eliseo sono grandi narrative sulla vita e e sulla morte, e ci svelano nuovi brani della grammatica del talento femminile e del dovere dei profeti.

Sulla terra non c’è dono più grande di un figlio. Quando un figlio muore, facciamo l’esperienza dell’inganno più grande. E se avevamo vissuto quel dono come dono di Dio, la sua morte manda in crisi la fede, viviamo l’inganno come inganno di Dio. Con i figli moriamo anche noi, muore la fede, muore Dio. Qualche volta riusciamo a risorgere, e insieme a noi risorge la fede, risorge Dio. Noi amiamo molto l’immagine del crocifisso perché il Golgota è pane quotidiano, mentre i monti Tabor sono troppo pochi. 

Dopo una nuova guerra tra Israele e Moab (2 Re, 3), Eliseo torna come profeta del popolo, delle donne e dei bambini: «Una donna gridò a Eliseo: "Mio marito, tuo servo, è morto... Ora è venuto il creditore per prendersi come schiavi i miei due bambini"» (4,1-2). Nel mondo antico i creditori venivano a prendersi anche i figli dei debitori insolventi per farli schiavi. Questo avveniva anche in Israele, ma gli ebrei volevano che nel popolo diverso di YHWH anche il debitore insolvente potesse essere trattato diversamente: «Sia presso di te come un bracciante, come un ospite» (Levitico 25, 39-40). E poi nell’anno giubilare gli schiavi per debiti dovevano tornare in libertà: «Ti servirà fino all’anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli» (41).

Eliseo moltiplica il suo orcio d’olio, e dice alla donna: «Va’, vendi l’olio e paga il tuo debito» (2 Re 4,7). Per la Legge gli schiavi dovevano aspettare sette anni per tornare liberi; per i profeti, invece, gli schiavi devono essere liberati qui ed ora. I profeti sono liberatori di schiavi. Per loro nemmeno la Legge di Mosè è sufficiente per una vita veramente degna. La Legge di Mosè sui debitori, diversa e più umana, non sarebbe nata senza la profezia d’Israele. Ma la profezia non è mai soddisfatta delle leggi, perché nessuna legge umana può essere all’altezza della terra promessa. La sola legge che piace ai profeti è quella che non abbiamo ancora scritto. La legge del Regno dei cieli è la legge del non-ancora. «Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era una donna illustre che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei» (4,8). Questa donna "illustre", amava il profeta "trattenendolo" a mangiare nella sua bella casa. La donna disse al marito: «Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare"» (4,9-10). Questa famiglia non solo sfama Eliseo, ma gli costruisce un piccolo appartamento dove potesse "ritirarsi". La prima Betania della Bibbia. 

Ci sono persone che, per una vocazione speciale e preziosa, sanno cogliere un bisogno di fraternità e di umanità tipico dei profeti, e lo soddisfano. Magari non fanno molte altre cose "pie" nella loro esistenza, ma questa stanza tenuta sempre pronta, profumata e pulita per il profeta-amico che passa è sufficiente per dare un senso buono alla loro vita. Si può essere giusti facendo bene una sola cosa nella vita. Queste persone capiscono che per il profeta nessun hotel a cinque stelle è migliore di quella stanza pronta al "piano superiore". A volte perdiamo troppe "penultime cene" in compagnia dei profeti perché non capiamo il valore di queste piccole stanze in muratura, il valore spiritualissimo di un tavolo, di un letto, di una sedia e di una lampada sopra le case degli amici. Ce ne sono alcuni che hanno continuato a camminare per anni senza morire perché avevano un solo amico che sapeva conservare una stanza pronta e apparecchiare una cena. Francesco, amante di poveri e di lebbrosi, alla fine della vita desidera i "mostaccioli" di Frate Jacopa, una sua amica nobildonna romana. Non tutti i ricchi si meritano i "guai" del Vangelo. Ce ne sono alcuni che fanno parte del popolo delle beatitudini. Sarebbe troppo "povero" un Regno dei cieli senza la presenza di qualche ricco che usa i suoi beni per "fare casa" ai profeti. Ogni ospitalità è sacra, ogni ospite accolto porta una benedizione. Ma l’ospitalità dei profeti trasforma la nostra casa in un angolo di paradiso; la riempie di angeli, di manna, di latte e miele - chi ha accolto e accoglie profeti lo sa molto bene.

«Un giorno che Eliseo passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò» - quanto è bello vedere un profeta dormire! Si potrebbe costruire una stanza solo per questo. Eliseo dice a Giezi, suo servo, di chiamare la donna sunammita e chiederle: «Cosa possiamo fare per te? C’è forse bisogno di parlare in tuo favore al re o al comandante dell’esercito?» (4,10-13). In Eliseo nasce la reciprocità, generata dall’ospitalità della donna. Ma sbaglia il primo contro-dono: «Ella rispose: "Io vivo tranquilla con il mio popolo"» (4,13). Quella donna non ha bisogno di beni materiali, di prestigio, di potere. Questi non sono, quasi mai, i beni delle donne, soprattutto quando non sono nell’indigenza e "vivono bene". Eliseo capisce e chiede a Giezi: «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio» (4,14-15). È la vita il bene primario delle donne. Eliseo fece chiamare la donna: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia». Ella rispose: «No, mio signore, uomo di Dio, non mentire con la tua serva» (4,15-16). 

Siamo di nuovo alle querce di Mamre. L’ospite annuncia alla donna il bene più grande, ormai non più atteso perché non poteva essere più atteso (il marito era vecchio). Qui la donna, come Sara, non crede subito alla promessa innaturale di quell’uomo. Lei però non ride, e dice qualcosa di tremendamente serio, perché riguarda l’intimità e il segreto più grande della donna: "non mi prendere in giro". Le donne non scherzano mai con la vita e con i figli. Ma, anche qui, l’impossibile si avvera: «La donna concepì e partorì un figlio» (4,17). Il bambino crebbe e «un giorno uscì per andare dal padre presso i mietitori. Egli disse a suo padre: "La mia testa, la mia testa!". Il padre ordinò a un servo: "Portalo da sua madre"» (4,18-19). Passano gli anni. Il bambino sta male e il padre lo invia alla madre e alle sue mani più affidabili - quante volte lo vediamo, quante volte lo facciamo. Ma il bambino muore. La sua morte ci dona una scena tra le più belle della Bibbia, che ci svela un altro brano di grammatica biblica sul talento delle donne: «La madre salì a coricarlo sul letto dell’uomo di Dio» (4,21). Il bambino è morto, ma la madre non ci crede. E intuisce che la vita ha a che fare con quel profeta ospite. Eliseo si trova sul monte Carmelo, ma la madre nell’attesa lo corica sul letto del profeta, l’unico posto dove appoggiare quel figlio. Chiamò il marito: «Voglio correre dall’uomo di Dio e tornerò subito». Il marito le domandò: «Perché vuoi andare da lui oggi? Non è il novilunio né sabato». Lei gli rispose: «Beh, stammi bene» (4,23).

Il marito non capisce. Pensa che il profeta sia un uomo del culto, cui rivolgersi solo nei giorni di festa. La donna invece sa che se c’è una possibilità per salvare suo figlio questa si chiama Eliseo. Bellissimo quel: "Beh, stammi bene" (oppure: "Va beh: ciao"), che segna un’altra grande differenza tra la donna e il marito nella gestione di quella crisi. L’uomo appare bloccato, confuso, rassegnato. La moglie agisce, di corsa, sapendo benissimo cosa deve fare. Parte e ordina al servo: «Conducimi, cammina, non trattenermi nel cavalcare». Eliseo la vede da lontano. Il suo servo le chiede: «Come stai?», lei risponde: «Bene!» (4,24-26). Non stava affatto bene, ma non vuole perdere tempo a parlare con l’ambasciatore. Solo le donne conoscono i tempi e i ritmi della vita nelle grandi crisi, quelle dove conta soltanto raggiungere subito l’obiettivo. Sono maestre di beni relazionali e di parole: sanno trascorrere ore a intrattenersi in dialoghi per il solo gusto del conversare, ma quando è in gioco la vita diventano capaci di calcoli costi-benefici perfetti e spietati. Lei qui vuole solo salvare suo figlio, e quindi vuole solo Eliseo, subito. Non si perde in chiacchiere e convenevoli, non è il tempo della cortesia coi maggiordomi. Si butta ai piedi di Eliseo e pronuncia una frase stupenda che solo le donne possono dire: «Avevo forse domandato io un figlio al mio signore? Non ti dissi forse: "Non mi ingannare"?» (4,28). 

È il centro drammatico del racconto. La donna rimprovera Eliseo di averla ingannata, di averla illusa con un figlio donato e ripreso, di essersi burlato di lei. Esiste nelle donne una autorità della vita che genera parole di una forza unica e infinita. Ho udito donne pronunciare gridando dei rimproveri agli uomini e a Dio di una durezza inaudita, ma più forte era in chi assisteva alla scena la certezza di star vivendo qualcosa di meraviglioso. In quei momenti, un insulto o una imprecazione hanno il profumo soave di un salmo. Quest’urlo della donna sunammita è una delle preghiere più vere e belle di tutta la Bibbia, che resta bellissima e verissima anche senza sapere (perché ancora non lo sappiamo) se il figlio risorgerà. Eliseo manda il suo servo dal ragazzo. Ma la madre capisce che la possibile salvezza sta nella persona del profeta. Protesta ancora e dice ad Eliseo: «Non ti lascerò». Allora «egli si alzò e la seguì» (4,30). Eliseo continua la sua sequela. Qui diventa seguace del suo discepolo – la sequela è matura quando sa alternare l’accompagnamento del maestro a quello del discepolo. 

Eliseo entrò in casa. Trovò il ragazzo morto disteso sul letto, pregò e «pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani sulle mani di lui, si curvò su di lui e il corpo del bambino riprese calore... Il ragazzo starnutì sette volte, poi aprì gli occhi» (4,34-36). E poi disse alla madre: «Prendi tuo figlio!» (37). Il figlio è donato alla donna per la seconda volta. Non è la resurrezione del figlio, il lieto fine della storia, a donare verità all’urlo di protesta di quella donna, ma è la verità dell’urlo a rendere vero il finale di questa storia e delle nostre, quando i figli restano morti e le nostre urla restano vere. Quella donna sunammita resta nella Bibbia senza nome. Forse perché ogni madre, sospesa tra una morte certa e una resurrezione sperata, possa metterci il suo.

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