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Il valore delle distanze brevi

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di  Luigino Bruni

pubblicato su: "La vita picena" il 18/04/2020

In questi primi quasi due mesi di emergenza globale sanitaria siamo entrati, improvvisamente, in un mondo che non conoscevamo. Stiamo scoprendo abilità che pensavamo di non avere - restare fermi a casa per settimane di fila, cucinare cose diverse e buone, parlare e ascoltare di più i famigliari, riscoprire il valore della domanda semplice ‘come stai?’, a guardare angoli della casa dimenticati e trascurati da anni, a fare riunioni online, lezioni, telefonate più lunghe e profonde, a piangere davanti alla TV, non per un film ma per le notizie tremende … -; ma stiamo anche scoprendo quanto era bello l’ufficio, i colleghi, la chiacchierata al bar che, ci siamo accorti, ci piaceva non solo per il caffè ma per i beni relazionali che consumavamo con gli amici.

I beni relazionali: quanto vale un abbraccio, un bacio ad un genitore, ad un nipote, una carezza ad un anziano o ad un bambino, essere consolati e consolare sul petto di un amico? Forse questo valore lo avevamo dimenticato, o molto sottovalutato; questa crisi è anche una grande occasione per riscoprire il valore delle distanze brevi; come l’emigrazione faceva capire ai nostri nonni il valore dei figli, come la disoccupazione fa capire il valore del lavoro, come la mancanza della messa in carne ed ossa con la nostra comunità ci ha fatto capire improvvisamente perché abbiamo chiamato l’eucarestia ‘comunione’ e perché il pane e il vino sono corpo e sangue, queste distanze diventate improvvisamente lunghe e lunghissime ci stanno facendo capire il tesoro nascosto nelle distanze brevi e brevissime, e quindi dell’amicizia.

Abbiamo improvvisamente capito che gli anziani andavano a far la spesa non solo per i bisogni elementari, ma per incontrare qualcuno, e che si muore anche di solitudine - ‘non di solo pane …’. Come abbiamo capito che cosa sia una professione, cosa è una vocazione. Pensiamo ai tanti tanti, troppi, medici e infermieri morti in questi due mesi. Non ci sono soltanto le gravi, gravissime responsabilità politiche e organizzative - che dovranno venire fuori a emergenza finita insieme ai necessari provvedimenti - di chi ha lasciato il personale sanitario impreparato e nudo di fronte al virus. Questo c'è, ed è un tema principale. Ma c'è anche qualcos'altro, che si chiama 'vocazione'. Ed qualcosa di serio, di serissimo, che non ha nulla di romantico. In tedesco vocazione e professione lavorativa sono quasi la stessa parola (Beruf). In queste morti c'è anche tanta vocazione. Non a caso l'altra categoria sociale falcidiata dall'epidemia sono i sacerdoti. Quando in un Pronto soccorso arriva una persona in fin di vita, giovane o anziano che sia, noi che non siamo medici facciamo, da fuori e dopo, molti ragionamenti, e li dobbiamo fare. Ma il dottore e l'infermiere hanno un istinto primordiale, una spinta primitiva che li porta a gettarsi su quel malato per salvargli la vita. Anche questo slancio originario, anche questo ardore elementare è giuramento d'Ippocrate. Una spinta talmente forte che a volte entra in contrasto con altre dimensioni essenziali della vita, quali la prudenza. Ci sono tante colpe istituzionali in queste morti; ma c'è anche tanta vocazione, e quindi tanto amore civile. E quindi un'infinita riconoscenza. Non ce la dimentichiamo quando dovremo accertare le responsabilità dell'imprudenza istituzionale.

Al tempo stesso, non dobbiamo pensare ingenuamente alla verità della frase: 'Niente sarà più come prima’. Perché non è affatto così evidente che niente sarà come prima. Lo abbiamo visto: è bastato l’annuncio di una possibile nuova tassa sui redditi alti perché la fraternità degli inni nazionali e delle canzoni al balconi andasse in crisi. Ci attendono certamente mesi di seria crisi economica, soprattutto in alcuni settori che più dipendono dalla mobilità - turismo, ristorazione, cultura … Ma sarebbe però davvero una grande occasione persa se i nostri stili di vita economici uscissero indenni da questa crisi.

In questi anni di ideologia neoliberista quasi tutti gli Stati hanno tagliato le spese sanitarie, hanno ridotto (tranne la Germania) i posti letto per la terapia intensiva, e hanno gestito anche la sanità come fosse una impresa come tutte le altre, e quindi sottoposta alla legge dei costi e dei benefici: se un investimento non rende nei tempi e nei modi del capitale, non si fa. Non abbiamo applicato un principio base della dottrina sociale della chiesa: il principio di precauzione, che dice di assicurarsi collettivamente per eventi rari ma molto dannosi. Ci assicuriamo per ogni incertezza nelle nostre famiglie e imprese ma il capitalismo non assicura se stesso dalle grandi crisi. E questo è sciocco. Ma è il capitalismo che dovrebbe essere ripensato in alcuni suoi assiomi di base. Ad esempio gli aiuti necessari per le imprese dovrebbero essere sottoposti a delle forme di condizionalità. Pensiamo alla distribuzione dei dividendi ai soci: se le imprese grandi riceveranno aiuti devono impegnarsi a non distribuire dividendi o a distribuirne molto pochi. Perché se quando ci sono le grandi crisi le imprese vengono aiutati dagli stati per non fallire perché i fallimenti sarebbero devastanti per tutti, allora nei tempi ordinari le imprese devono accumulare ricchezza da usare nei tempi di crisi. Gli azionisti non possono mungere le imprese nei tempi delle vacche grasse e ricorrere alla fiscalità generale nei tempi delle vacche magre - che saranno sempre più frequenti. Anche perché le tasse in Italia le pagano in massima parte le famiglie e i lavoratori dipendenti, tasse che poi vengono usate per aiutare le imprese i cui dividendi finiscono in massima parte a banche e soggetti benestanti. Non possiamo aspettare che il mercato fallisca perché lo Stato intervenga; occorre far sì che le imprese siano gestite diversamente. Altrimenti arriveremo ancora preparati alla prossima crisi. Non ce lo possiamo permettere più.

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