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John Stuart Mill e il “senso sociale” della giustizia

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 03/09/2023

Nella visione elaborata dal filosofo inglese John Stuart Mill l'idea di giustizia è certamente legata alla dimensione morale. Un'azione giusta è con certezza un'azione morale. La cosa interessante, però, è che, al contrario, non tutte le azioni morali hanno a che fare direttamente con l'idea di giustizia. Mill utilizza l'esempio della beneficenza e della carità. Due comportamenti lodevoli e associati ad un senso di moralità. Eppure, nonostante, questo, sarebbe difficile poter definire ingiusta la scelta di una persona di fare beneficenza per una causa ma non per tutte le cause, oppure fare la carità verso una persona ma non verso chiunque altro si trovi in condizioni di bisogno.

Il confine fra giustizia e moralità

Cosa distingue, dunque, giustizia da moralità? Un'azione morale è anche giusta, nella visione di Mill, quando questa può essere, in qualche modo, «pretesa» dal beneficiario. Il datore di lavoro che paga un salario proporzionato allo sforzo messo in campo dal lavoratore si sta certamente comportando in modo morale, ma anche giusto, perché il lavoratore è titolato a pretendere il suo giusto salario. Un medico che cura con perizia un suo paziente si sta comportando in maniera morale, ma anche secondo giustizia, perché il paziente è titolato ad esigere un tale trattamento dal suo medico.

Ora, l'intenzione di Mill è quella di spingersi ancora più a fondo nella chiarificazione dell'idea di giustizia, in particolare per quanto riguarda l'origine di quel “sentimento” che tutti noi associamo ad atti che riteniamo ingiusti. «Avendo così tentato di determinare gli elementi distintivi che concorrono alla formazione dell'idea di giustizia – scrive Mill, nel capitolo V de L'Utilitarismo (1861) - possiamo cominciare a chiederci se il sentimento che l'accompagna sia associato ad essa grazie a uno speciale dono della natura, oppure se si sia sviluppato, in base a qualche legge conosciuta, dall'idea stessa, e in particolare se possa aver tratto origine da considerazioni di convenienza generale».

Le possibilità sembrano essere due: o ciò che noi sentiamo nel profondo quando siamo posti davanti ad un atto ingiusto è una specie di istinto che deriva da una qualche proprietà naturale legata all'idea di giusto e ingiusto, oppure esso trae origine dal legame che ha con l'idea di utilità, di convenienza. Mill propende per una terza posizione, più sfumata. Egli, infatti, ritiene che «il sentimento in sé non derivi da quella che verrebbe comunemente o correttamente definita un'idea di convenienza, ma che, sebbene il sentimento non derivi da tale idea, tutto ciò che vi è in esso di morale abbia questa derivazione». È la natura morale che associamo alla giustizia a trovare, dunque, il suo radicamento nella proprietà dell'essere «utile».

La doppia radice del comportamento «utile»

Le radici, allora, sono da una parte, il desiderio di punire chi fa del male, a noi o ad altri, e dall'altra, la convinzione che qualcuno o noi stessi, siamo stati effettivamente trattati ingiustamente. La prima radice, a sua volta, trova origine nel naturale istinto di autodifesa e nel sentimento di “simpatia” che ci fa solidarizzare con i dolori altrui.

Una lettura decisamente moderna, questa, confermata da molti recenti studi di antropologia, neuroscienze ed economia comportamentale. Se è vero che l'istinto di autodifesa è comune ad ogni specie animale superiore, è anche vero, continua Mill, che nell'uomo sia questo istinto che quello di simpatia si sono sviluppati al massimo grado.

Grazie alla «superiore intelligenza», continua il filosofo, non solo gli esseri umani si interessiamo alla loro sorte e a quella di chi è imparentato geneticamente, come fanno generalmente le altre specie animali, ma anche al destino di coloro che ci sono estranei, geneticamente, ma che pure condividono con noi la comune umanità. E ancora grazie alle doti tipicamente umane, il giusto e l'ingiusto si applicano a una gamma molto ampia di sentimenti che superano il benessere individuale.

«Un essere umano [infatti] è capace di abbracciare una molteplicità di interessi, sussistenti fra sé e la società umana della quale fa parte: ogni azione che possa turbare la sicurezza della società in generale mette in pericolo anche la sua e ne sollecita l'istinto (se è tale) di autodifesa. La stessa superiorità di intelligenza, unita alla capacità di simpatizzare con gli altri, gli consente di aderire all'idea collettiva della sua tribù, del suo paese o dell'umanità a tal punto che ogni atto ad essi nocivo stimola il suo istinto di simpatia e lo spinge a opporre resistenza”.

Come abbiamo detto, è il desiderio di punire chi si comporta male, a fondare il sentimento di giustizia, che però, in questa, fase non può ancora essere considerato «morale». Potremmo per esempio voler punire chi ci ha punito come reazione ad un'ingiustizia di cui noi stessi ci siamo resi colpevoli. In questo caso non possiamo certo definire questo desiderio di «contro-punizione» come «morale». Ciò che determina la moralizzazione del desiderio di punire è, qualcos'altro e cioè la sua conformità al “senso sociale”, il fatto che possa agire soltanto in una direzione conforme al bene generale sottolinea Mill.

Il desiderio di punizione e il sentimento di giustizia

In sintesi, dunque, possiamo dire che il sentimento di giustizia trova origine dall'esistenza di una regola di condotta che quando violata, genera un naturale desiderio di punizione. Occorre, inoltre, che vi sia anche una persona che abbia subito una violazione di qualche suo diritto, che abbia, quindi, titolo per attendersi legittimamente un qualcosa che gli è stato negato. La spinta alla punizione che si origina in questo modo deve, poi avere un orientamento sociale, deve cioè, concorre, sia pure indirettamente, al bene di tutta la società, non solo dell'individuo offeso.

La parte finale dell'argomentazione milliana si concentra sul legame esistente tra giustizia ed utilità. Davvero il giusto è ritenuto giusto perché utile? Per prima cosa il filosofo si impegna nella critica di tutte quelle posizioni che indicano nell'“utilità” una norma decisionale incerta, mostrando che, in realtà, anche tutte le fondazioni alternative al concetto di giustizia sono altrettanto incerte e danno luogo a paradossi e ambiguità insolubili. Ne conclude che «qualsiasi scelta sul terreno della giustizia è necessariamente arbitraria: solo l'utilità sociale può costituire un criterio di preferenza […] da queste confusioni non c'è altra via di uscita che l'utilitarismo».

Il giusto, l’utile e il bene supremo

Ma esiste allora una differenza tra il «giusto» e l'«utile»? Certo che esiste, conclude Mill. «La nostra esposizione della natura e dell'origine del sentimento di giustizia ammette una reale distinzione […] Mentre io contesto le pretese di qualsiasi dottrina che affermi un presunto principio di giustizia non fondato sull'utilità, riconosco che la giustizia fondata sull'utilità è l'elemento fondamentale e indubbiamente il più sacro e vincolante di tutta la morale. Giustizia è il nome che si dà ad alcune categorie di regole morali che, riguardando più da vicino l'essenza del benessere umano, sono quindi più vincolanti di ogni altra regola per la condotta: la nozione che abbiamo scoperto essere l'essenza dell'idea di giustizia, quella di un diritto immanente in ogni individuo, implica e attesta questa più rigida obbligazione».

Il rispetto delle regole di giustizia è utile, quindi, nel senso che solo attraverso questa osservanza è possibile garantire il bene supremo e, cioè, la pacifica convivenza degli uomini. Questa altro non è che la precondizione per l'attuazione del primo principio della morale: il principio della massima felicità. «Giustizia» è, dunque, il nome appropriato dell'utilità sociale, utilità che nella visione milliana, però, supera in grado e importanza la semplice idea di piacere o convenienza dei singoli per designare l'utile coerente con il bene sociale.

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