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Jeremy Bentham, l'algebra morale e la giustizia come utilità

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 30/07/2023

“Tre sono le sorgenti dalle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini – scrive Cesare Beccaria nelle prime pagine del suo Dei delitti e delle pene (1764) - La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società”. Dio, natura e convenzioni umane fondano, dunque, tre differenti prospettive rispetto a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Classi di virtù

Allo stesso tempo queste tre diverse prospettive danno origine a tre diverse classi di virtù. Le prime due sorgenti sono immutabili, mentre la terza dipende dall'agire umano. Ed è su questa ultima nozione che Beccaria sceglie di concentrarsi. “Il considerare i rapporti dell'ultima non è l'escludere i rapporti delle due prime - continua il marchese di Gualdrasco - così sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione ciò che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per la necessità ed utilità comune, idea in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire”.

In queste poche righe troviamo in nuce espressi i due principi fondamentali di quella corrente filosofica e politica che dominerà il mezzo secolo che va dalla pubblicazione del Trattato sulla Natura Umana (1739) di David Hume fino allo scoppio della Rivoluzione Francese, nel 1789, anno in cui viene dato alle stampe l'Introduzione ai Principi della Morale e della Legislazione di Jeremy Bentham. Parliamo dell'utilitarismo, una prospettiva filosofica e politica che accomuna pensatori come Beccaria, Mill, Helvétius, Gay, Hutcheson e Bentham, appunto, che in genere ne viene ritenuto il padre fondatore e che, nata in quegli anni, continua ed esercitare la sua profonda influenza ancora oggi.

Pannomion utilitaristico

Un pensatore tanto originale quanto frainteso, Bentham. Fu un bambino prodigio, iniziò a frequentare l'università, il Queen's College di Oxford, all'età di 12 anni. Dedicò la sua vita alla creazione di un pannomion (un corpo completo di leggi) basato sui principi utilitaristici. Le sue idee portarono all'introduzione di decine di riforme legali e la sua influenza politica fu profonda in Inghilterra per molti anni dopo la sua morte. Era certamente un pensatore radicale e innovativo. I suoi scritti a favore della depenalizzazione dell'omosessualità erano così liberali che, dopo la morte del filosofo, il suo stesso editore decise di tenerli segreti. Fu uno strenuo sostenitore dei diritti delle donne, compresa la possibilità di divorziare, dell'abolizione della pena di morte, della schiavitù e di ogni forma di punizione corporale; propugnò una radicale riforma carceraria e varie liberalizzazioni in ambito economico.

Fu anche uno dei primissimi pensatori ad occuparsi del benessere animale. “I francesi hanno già scoperto che il nero della pelle non è una ragione per cui un essere umano debba essere abbandonato senza rimedio al capriccio di un carnefice. Può arrivare il giorno in cui si riconoscerà che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell'oc sacrum sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare un essere senziente allo stesso destino? Quale attributo dovrebbe tracciare l'insuperabile confine? La facoltà della ragione, o, forse, quella del discorso? Ma un cavallo o un cane adulto è un animale incomparabilmente più razionale, e più socievole, di un neonato di un giorno o di una settimana, o anche di un mese. Ma anche ponendo che le cose stiano diversamente: a che servirebbe? La domanda da porre non è «Possono ragionare?», né «Possono parlare?» ma «Possono soffrire?»”.

Non è affatto un caso che Peter Singer, l'autore di Liberazione animale, il testo fondamentale del movimento animalista, sia, sul solco di Bentham, il più importante filosofo utilitarista contemporaneo. Contribuì alla fondazione del Birkbeck College e dello University College a Londra. La prima università inglese ad accesso libero, senza nessun tipo di distinzione di razza o classe sociale. Lasciò scritto che dopo la morte il suo corpo venisse imbalsamato e posto in una teca di vetro. Lo si può osservare ancora oggi nel chiostro sud della sede centrale di quella università.

Giustizia come convenzione

Ma veniamo alle caratteristiche distintive dell'approccio utilitarista che Beccaria illustra nelle poche righe che abbiamo citato in apertura. La giustizia è una convenzione; è questa la prima idea di base. Un'idea ereditata per via diretta da David Hume, ma sviluppata dagli utilitaristi in maniera radicale fino al punto da arrivare a considerare il concetto stesso di “diritto naturale” come una sciocchezza, o, per usare l'espressione dello stesso Bentham, “un nonsenso sui trampoli”.

L'alternativa che viene proposta la si trova anche questa nelle righe di Beccaria citate sopra, quando egli fa riferimento alle convenzioni umane fondate sulla “utilità comune”. Ogni uomo è spinto dal suo auto-interesse verso l'ottenimento di ciò che, per natura, più desidera: la massima felicità e la minore sofferenza possibile. Nessun altro al posto nostro può giudicare la qualità o il grado della nostra felicità. Ciascuno di noi è e dev'essere giudice di ciò che ci fa felici, ed è per questo che solo noi possiamo determinare ciò che è moralmente giusto. Perché ciò che è giusto non è altro che ciò che massimizza la nostra utilità.

Dolore e piacere

La stessa idea di giustizia è, dunque, per Bentham un principio secondario, null'altro che conseguenza di ciò che è utile. L'incipit del capitolo primo della sua Introduzione, non potrebbe essere più esplicito: “La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che faremo. Da un lato il criterio di ciò che è giusto o ingiusto, dall'altro la catena delle cause e degli effetti sono legati al loro trono. Dolore e piacere ci dominano in tutto quel che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo: qualsiasi sforzo possiamo fare per liberarci da tale soggezione non servirà ad altro che a dimostrarla e confermarla. A parole si può proclamare di rinnegare il loro dominio, ma in realtà se ne resta del tutto soggiogati. Il principio di utilità riconosce tale soggezione, e la assume a fondamento di quel sistema il cui obiettivo è innalzare l'edificio della felicità per mezzo della ragione e della legge”.

Quindi, come abbiamo visto, la sorgente di ciò che è giusto o sbagliato non risiede fuori dall'individuo in qualche entità esterna, divina, o in qualche idea astratta di diritto, di vizio o di virtù; essa è ancorata all'esperienza soggettiva di benessere e di sofferenza che ogni individuo prova in determinate circostanze. Chiameremo, per questo, “giusto” ciò che fa aumentare la felicità e riduce la sofferenza e “sbagliato” ciò che, viceversa fa crescere la sofferenza e riduce la felicità. In altre parole, e qui sta la seconda caratteristica fondamentale dell'impianto utilitaristico, il ragionamento morale è un ragionamento di natura “consequenzialista”.

La bontà di un'azione, di una regola, di una istituzione si misura esclusivamente sulla base degli effetti che esse esercitano sulla nostra felicità. Possiamo definire, dunque, i due principi chiave dell'utilitarismo come la convinzione che la variabile obiettivo di ogni teoria morale e istituzione politica debba essere il benessere degli esseri umani e che la bontà di tali teorie e di tali istituzioni debba essere valutata in base alla loro capacità di raggiungere efficacemente tale fine. Questa impostazione, oggettiva e scientifica, negli intendimenti dei suoi fautori, suscitò fin da subito non poche critiche. La prima è relativa alla definizione stessa di “benessere”.

Natura edonistica dell’utilità
Cosa intentiamo di preciso quando parliamo di felicità? Qual è la metrica che dobbiamo usare per misurare le conseguenze di un'azione o l'efficacia di una politica? Le risposte che nel tempo sono state date a tale questione sono diverse e con il passare del tempo via via sempre più sofisticate. L'originaria posizione benthamita al riguardo era piuttosto semplice e diretta, ma non per questo ingenua. “A che cosa attribuire il carattere di utilità, se non a ciò che è fonte di piacere?” scrive nella sua opera in francese Théorie des peines et des récompenses.

L'utilità ha, dunque, una natura edonica: cresce con l'esperienza del piacere e si riduce con quella della sofferenza. Questa prospettiva non è restrittiva come potrebbe sembrare, perché le fonti di piacere possono essere molte e variegate. Non si dovrebbe considerare, infatti, solamente il piacere dei sensi ma tutte le esperienze che posseggono una valenza positiva: la lettura di un bel libro o la visione di un film, la risoluzione di un problema che ci stava a cuore, una serata con gli amici, la stabilità degli affetti, godere di un panorama naturale o di un'opera d'arte. Queste esperienze producono benessere di per sé. Altre invece, come le ricchezze materiali, la salute, l'esperienza della giustizia, dell'equità e dell'uguaglianza sono esperienze positive, ma in termini strumentali, in quanto, cioè, forniscono i mezzi per promuovere la felicità e ridurre la sofferenza.

“Calcolo felicifico”

L'approccio edonico di Bentham si spinge fino al punto di immaginare un vero e proprio “calcolo felicifico”, una sorta di algebra morale attraverso la quale pesare ed aggregare in un unico indice di utilità, piaceri e dolori che differiscono tra loro per “intensità”, “durata”, “certezza o incertezza” e per “prossimità o lontananza”. Questa particolare visione dell'utilità tipica dell'utilitarismo classico non è l'unica sviluppata da fine ‘700 in poi.

Per rispondere alle critiche mosse agli utilitaristi molti hanno proposto che l'utilità venga intesa come una misura di un benessere mentale non necessariamente legato alla piacevolezza fisica delle esperienze. Un atleta può sentirsi felice per aver fatto un lungo allenamento anche se di fatto è stanco e i suoi muscoli dolgono. Per altri l'utilità equivale al soddisfacimento delle proprie preferenze. Un amante dei film horror può sentirsi felice anche quando viene spaventato, anzi proprio perché viene spaventato dalle immagini truculente di un film di genere.

Come la mettiamo però con quelle preferenze che preferiremmo non avere? Ad un alcolista piace bere ma probabilmente sarebbe più felice se preferisse non bere. Analogamente ad un ludopatico piace giocare d'azzardo ma con tutta probabilità preferirebbe non preferire farlo. Per tener conto di queste e di altre obiezioni simili alcuni pensatori utilitaristi hanno proposto di considerare l'utilità come derivante dal soddisfacimento di “preferenze informate”, di quelle preferenze, cioè, che tengono conto di tutta l'informazione necessaria per valutarne la effettiva razionalità.

Consequenzialismo

Oltre a quello della definizione stessa del concetto di “utilità” l'impostazione utilitarista soffre di un altro problema di fondo: la sua natura consequenzialista. Assumiamo che l'azione o la politica pubblica A produca la conseguenza X e l'azione o la politica B, invece, dia origine alla conseguenza Y. Il consequenzialismo impone che si possa affermare che la prima è preferibile alla seconda solo se la conseguenza X è preferibile alla conseguenza Y, o viceversa. In un'ottica utilitarista, proprio in virtù del suo consequenzialismo, il giudizio morale sulle azioni si fonda esclusivamente sull'utilità delle loro conseguenze. In linea di massima questo sembra un criterio di valutazione più che ragionevole.

Un'analisi più approfondita, tuttavia, fa emergere non poche criticità. In questo schema di ragionamento, come abbiamo detto non esistono azioni buone o giuste in sé. I precetti che intimano di non mentire o di non uccidere non hanno, per gli utilitaristi, uno status morale particolare rispetto, per esempio, alle regole che prevedono che si debba portare una bottiglia di vino quando invitati a cena o di alzarsi dalla sedia quando il professore entra in classe. Nessun valore intrinseco. Il valore e, quindi, la considerazione morale delle differenti azioni dipende esclusivamente dalle conseguenze che queste producono.

Come la mettiamo con l'omicidio allora? L'eliminazione di una vita ha, naturalmente, conseguenze terribili, per chi viene ucciso, innanzitutto, ma anche per tutti i suoi familiari ed amici. E questo è vero sia che l'omicidio venga compiuto volontariamente e con premeditazione, sia che risulti come conseguenza di una disperata legittima difesa. La nostra intuizione morale, però, ci spinge a valutare le due circostanze in maniera differente, nonostante l'equivalenza delle conseguenze. Nella versione più estrema dell'approccio consequenzialista, contano, dunque, solo gli effetti in termini di utilità, non la bontà o la malvagità intrinseca di una data azione, né le intenzioni di chi l'ha perpetrata. Bentham, come molti altri utilitaristi, non era solo un filosofo ma anche un attivista e un riformatore sociale. Il suo interesse non era solo morale ma anche politico. Il suo scopo non riguardava solo l'identificazione delle regole di una condotta giusta e utile, ma la creazione di istituzioni capaci di promuovere il benessere di ogni uomo.

Istituzione e “utilità” dei cittadini

Nella stessa linea di Hume, egli era convinto che le istituzioni politiche abbiano natura convenzionale - “artificiale”, come diceva il filosofo scozzese - e per questo non sono non devono essere considerate date e immutabili, al contrario, ci si deve adoperare attivamente per progettarle, riformarle e modificarle in modo tale da renderle più efficaci. Una efficacia che occorrerà misurare, in ossequio al principio utilitaristico, in relazione alla loro capacità di promuovere l'“utilità” dei cittadini. Questo è il concetto che Bentham propone non solo come guida morale alle azioni individuali, ma anche come metrica con la quale valutare l'efficacia delle istituzioni politiche e la loro capacità di promuovere l'interesse delle comunità.

Ma in cosa si sostanzia in concreto tale interesse? Questa - scrive Bentham nell'Introduzione ai Principi della Morale e della Legislazione - “è una delle espressioni più generiche che si possano trovare nella fraseologia della morale: non c'è da meravigliarsi che il suo significato vada spesso perduto. Quando ha un significato è il seguente. La comunità è un corpo fittizio, composto dalle singole persone considerate come sue membra. Quindi che cos'è l'interesse della comunità? La somma degli interessi dei vari membri che la compongono”.

Il bene comune come somma dell'utilità di tutti i cittadini. Un'idea già espressa anni prima sempre da Beccaria il quale si fa portatore di una visione della legislazione guidata “da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero”. “The greatest happiness for the greatest number”, la formula adottata da Beccaria, Bentham, ma anche da Helvétius e Hutcheson, e posta a guida delle azioni del legislatore e del governo. Il grande merito di aver elevato il benessere dei cittadini a fine ultimo dell'azione politica, nonostante i limiti, che pure esamineremo nei prossimi Mind the Economy, è probabilmente il lascito più prezioso dell'utilitarismo. Un lascito ancora vivo oggi o solo un retaggio di un passato che ormai non riconosciamo più?

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