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Il muro e la volta. David Hume e la virtù artificiale della giustizia

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 04/06/2023

“Se gli uomini non sanno quale sia il loro dovere, cosa mai potrà costringerli ad obbedire alle leggi? Un esercito, mi direte. Ma chi costringerà l’esercito?” Scrive così Thomas Hobbes nel suo Behemoth (Laterza, 1979, p. 68) pubblicato postumo nel 1681, trent’anni dopo il più famoso Leviatano, di cui avrebbe dovuto costituire l’ideale seguito. Questa domanda pone un problema cruciale per tutti i pensatori del tempo e cioè quello dell’origine della cogenza delle norme.

Perché ci sentiamo obbligati – e riteniamo sia giusto esserlo – verso certi comportamenti e non verso altri? Perché riteniamo sia giusto non fare del male ad un altro essere umano, ma non abbiamo problemi a uccidere un animale? Perché riteniamo sia giusto non tradire la fiducia ricevuta ma non ci sentiamo obbligati nel caso in cui qualcuno si aspetti da noi un comportamento iniquo? E perché è giusto guidare sulla destra ma solo in alcuni Stati mentre in altri è giusto guidare a sinistra?

Un denominatore comune

Sono questioni solo apparentemente lontane tra di loro ma che in realtà sono accomunate da una stessa questione: una vita sociale ordinata può aver luogo solamente se i membri di una comunità condividono regole di condotta che riconoscono reciprocamente come eque e vincolanti. Cosa rende, dunque, una certa azione giusta ed un’altra sbagliata? E cosa rende le regole che riteniamo giuste, anche vincolanti? Comprendere questo punto ci aiuta a comprendere l’origine dei diritti e dei doveri, delle pratiche ammesse e di quelle vietate e la natura stessa delle istituzioni che altro non sono che l’insieme di tali regole codificate in maniera formale.

Hobbes non fornisce una risposta articolata a tali domande. Per lui la giustizia equivaleva al rispetto dei patti necessari a farci uscire dallo stato di natura e dalla guerra di tutti contro tutti. Un altro filosofo affronterà con maggior impegno la questione fino ad elaborare una teoria della giustizia come “virtù artificiale”. Si tratta del filosofo scozzese David Hume. Figlio di una nobile famiglia, giovane insoddisfatto del mondo culturale scozzese, insofferente della tradizione e ateo convinto. Ebbe vita irregolare e non riuscì mai a farsi accettare dai circoli accademici. Diventò bibliotecario all’Università di Edimburgo e poi segretario dell’ambasciatore d’Inghilterra a Parigi, dove conobbe e divenne amico di Jean-Jacques Rousseau.

Le indagini morali e politiche di Hume, esposte principalmente nel Trattato sulla natura umana nella Ricerca sull’intelletto umano e nella Ricerca sui principi della morale, oltre che in innumerevoli saggi politici e filosofici, comprendono tre ambiti di indagine principali, legati ma indipendenti: la teoria dei sentimenti morali, la teoria del governo e la teoria della proprietà e della giustizia. Ci concentreremo principalmente su quest’ultima.

La teoria della proprietà e della giustizia di Hume

Il punto di partenza in quest’ambito è una domanda apparentemente semplice: “Perché le persone approvano e disapprovano ciò che approvano e disapprovano?”. In altri termini, cosa definisce un’azione virtuosa?

Naturalmente Hume inserisce tale questione in una visione più generale che riguarda in particolare la nascita dell’ordine sociale, di quell’insieme di regole, pratiche ed istituzioni che le comunità si danno per regolare la propria convivenza e renderla stabile e prospera. La novità della posizione di Hume al riguardo è che tale ordine sociale viene considerato “spontaneo”, non legato, cioè, ad un processo naturale ed ineludibile, ma di natura artificiale, frutto di scelte individuali e collettive e quindi modificabile, migliorabile, perfettibile.

La questione dell’ordine spontaneo che sorge dalla combinazione di azioni individuali coordinate è una questione sottile e in fondo paradossale. L’insieme delle regole che le comunità adottano per poter cooperare e convivere pacificamente, nasce e si consolida grazie alle azioni coordinate di quelle stesse persone che, in origine, hanno bisogno per poter cooperare di quelle stesse regole che ancora non esistono e alla cui creazione stanno contribuendo. Un pensiero circolare sembrerebbe, paradossale, appunto.

Tutti preferiremmo vivere in un mondo nel quale la libertà e la proprietà privata siano tutelate piuttosto che in un mondo nel quale la nostra libertà e le nostre proprietà siano alla mercé dei prepotenti. Ma nel momento in cui un individuo sa che tutti gli altri hanno accettato di vincolarsi al rispetto della proprietà altrui egli preferirebbe sentirsene svincolato, in modo da poter approfittare del rispetto delle regole che gli altri si sono autoimposti. Ma se tutti ragionassero in questo modo, se tutti anche solo anticipassero il pericolo che qualcun altro possa fare un ragionamento simile, allora nessuno accetterebbe di vincolarsi a nessuna regola e l’ordine sociale non potrebbe sorgere. Le regole che facciamo nascere sarebbero le stesse di cui avremmo bisogno per poterle far nascere.

Un “dilemma del prigioniero” di tutti contro tutti

Ci troviamo in un classico “dilemma del prigioniero” giocato non da due, ma da una infinità di attori differenti. Come uscire da questo paradosso? La proposta di Hume è volta a rinvenire un fondamento ultimo all’ordine sociale che ne costituisca la base solida e che, contemporaneamente, risolva il paradosso, chiuda il cerchio logico e possa mettere fine a questo regresso all’infinito. Si tratta di attribuire alle regole, alle pratiche ed alle istituzioni che costituiscono l’ordine sociale una valenza morale.

Hume procede in questo senso costruendo una teoria della giustizia che possa attribuire all’ordine sociale caratteristiche di imparzialità e di obbligatorietà che necessariamente devono contraddistinguere le sue regole fondamentali per generare nei membri della comunità il desiderio di aderirvi spontaneamente. Nelle sue stesse parole, egli è interessato alla comprensione del “modo in cui le regole della giustizia vengono poste mediante l’artificio degli uomini, e le ragioni che ci spingono ad attribuire all’osservanza o alla negligenza di queste regole una bellezza o una bruttezza morale”.

Proviamo a considerare uno dei suoi esempi: “Supponiamo che una persona mi abbia prestato una somma di denaro – scrive Hume nel Trattato sulla natura umana - alla condizione che le venga restituita in pochi giorni, e supponiamo inoltre che alla scadenza del termine convenuto mi richieda la somma: quale ragione o quale motivo ho di restituire il denaro?” Esiste una obbligazione alla restituzione? E se la risposta fosse positiva, da dove sorge, su che si fonda tale obbligazione? “Si dirà forse che il mio rispetto per la giustizia e la mia avversione per la scelleratezza e la disonestà sono per me ragioni sufficienti (…)

Questa risposta è senza dubbio giusta e soddisfacente per un uomo civilizzato e allevato nel rispetto di una certa disciplina e di una certa educazione. Ma, in una condizione umana primitiva e più naturale (…) questa risposta verrebbe rifiutata in quanto del tutto incomprensibile e sofistica”. La ragione è semplice, afferma Hume, perché “una persona che si trovasse in questa condizione vi chiederebbe immediatamente: in che cosa consiste questa onestà e giustizia che voi trovate nel restituire un prestito e nell’astenervi dalla proprietà altrui?”. Ci sono virtù naturali come la benevolenza, la gratitudine, l’affetto paterno, che sono fondate direttamente sulla nostra natura umana. Servono alla conservazione della specie. Hanno una giustificazione che trascende l’accordo tra gli uomini. Altre, invece - è la virtù della giustizia è la principale tra queste - che un fondamento non tanto naturale ma convenzionale. Come se gli uomini si fossero accordati nel dare valore a una regola di comportamento che genera, a sua volta, comportamenti di valore.

L’artificialità della virtù della giustizia

L’argomentazione di Hume relativa alla artificialità della virtù della giustizia procede in questo modo: ogni azione virtuosa è resa tale dal fatto che ha una motivazione virtuosa. Tale motivazione non può far riferimento al senso del dovere perché altrimenti il ragionamento sarebbe circolare. Per questo ci deve essere un motivo indipendente per qualsiasi tipo di azione virtuosa. Che tipo di motivo può giustificare l’onestà nel caso di cui sopra? Il motivo delle azioni oneste non può essere l’interesse personale. Neanche l’interesse pubblico. Quindi, dopotutto, sembra non possa esserci nessun fondamento per le azioni oneste se non il rispetto per l’onestà stessa.

Da dove trae origine, quindi, l’obbligazione a restituire il prestito e a tener fede ad una promessa? “Non certo l’amore per la nostra reputazione o il nostro interesse individuale perché ogni qual volta le nostre azioni dovessero essere contro la reputazione o l’interesse, non potrebbero più essere considerate giuste. E noi sappiamo che è spessissimo vero il contrario. Comportarsi in maniera giusta può portare danno sia al nostro interesse personale – rinunciare ad un guadagno indebito, per esempio – sia alla nostra reputazione, quando, ancora per esempio, dovessimo ammettere di aver tenuto una condotta scorretta. Il nostro giudizio collettivo su ciò che è giusto o sbagliato non può dunque fondarsi su ciò che utile all’individuo.

Per quanto possa sembrare strano, Hume esclude anche la possibilità che la giustizia si possa fondare sull’interesse pubblico. Quando un uomo fa del bene ad un essere malvagio, sostiene il filosofo, si comporta in maniera giusta nella relazione personale, anche se tale azione può andare a scapito dell’interesse pubblico. “Da tutto ciò deriva che non abbiamo nessun motivo reale o universale di osservare le leggi dell’equità, se non la stessa equità e il merito proprio dell’osservarla; e poiché nessun’azione può essere equa o meritoria se non sorge da qualche motivo a sé, ci troviamo di fronte ad un evidente ragionamento circolare”. A meno che, come scrive Hume “la natura non abbia stabilito un sofisma”, la soluzione a questo paradosso deve essere che “il senso della giustizia e dell’ingiustizia non sono derivati dalla natura, ma nascono artificialmente, sebbene necessariamente dall’educazione e dalle convenzioni umane”. La giustizia come modo di condotta rappresenta un paradosso dal quale possiamo uscire solo se iniziamo a considerarla come una “virtù artificiale”, frutto di consuetudine e convenzione.

Razionalità parametrica e razionalità strategica

Per comprendere a fondo questa distinzione introdotta da Hume tra virtù naturali e virtù artificiali è necessario considerare un’altra distinzione fondamentale, quella tra razionalità parametrica e razionalità strategica. La prima ha a che fare con l’ottimalità delle scelte che noi compiamo dati gli obiettivi che vogliamo raggiungere e i vincoli che si frappongono al raggiungimento di tali risultati. In ambito economico, per esempio, questo riguarda il consumatore che massimizza la sua utilità dato il suo vincolo di bilancio e dell’impresa che massimizza i profitti dati i suoi vincoli tecnologici.

La razionalità strategica, invece, attiene a situazioni nelle quali esiste interdipendenza. Ciò significa che le conseguenze delle azioni di un soggetto non dipendono solo dalla natura delle sue scelte ma anche dalle scelte che compiono tutti altri soggetti con cui egli sta interagendo. La stessa scelta può dunque produrre risultati positivi o meno a seconda di ciò che fanno anche gli altri. Nella Ricerca intorno ai principii della morale, Hume esplicita questo punto attraverso una suggestiva metafora nella quale differenzia le virtù naturali, la benevolenza in questo caso, da quelle artificiali, la giustizia, paragonandole reciprocamente ad un muro e ad una volta: “La felicità e prosperità degli uomini, che scaturisce dalla virtù sociale della benevolenza e delle sue suddivisioni, può esser paragonata a un muro, costruito da molte mani, il quale cresce sempre per ogni pietra che gli viene aggiunta ed aumenta in modo proporzionale alla diligenza ed alla cura di ogni operaio. La stessa felicità, che sorge però dalla virtù sociale della giustizia e dalle sue suddivisioni, può esser paragonata a una vòlta, dalla quale ogni singola pietra cadrebbe, se tutta la fabbrica non fosse sostenuta dalla reciproca assistenza e dalla combinazione delle parti corrispondenti”.

La benevolenza è una virtù parametrica, diremmo noi oggi, mentre la giustizia è una virtù strategica. Nel primo caso il comportamento degli altri può essere assunto come dato. Per fondare la giustizia, invece, occorre considerare anche le scelte che traggono il loro valore dalle scelte che ciascuno degli altri metterà in atto, immaginando, a loro volta, le scelte che anche tutti gli altri decideranno di compiere. In termini economici è la stessa differenza che si osserva tra una massimizzazione vincolata ed un equilibrio di Nash. Le virtù sociali della giustizia e della fedeltà - continua Hume nella Ricerca – “sono utilissime e persino assolutamente necessarie al benessere degli uomini; ma il benefizio che ne resulta non è la conseguenza di ogni singolo atto individuale; sì bene scaturisce da tutto lo schema o sistema, al quale collabora tutta o gran parte della società”.

Quale differenza?

In che cosa si differenzia, dunque, una virtù naturale come la benevolenza, da una artificiale come la giustizia? Un processo mentale o un tratto caratteriale è considerato naturale se lo possediamo per il semplice fatto di appartenere al genere umano. E tale fatto non è influenzato da caratteristiche di carattere ambientale o culturale e se tali tratti sono utili sia per l’agente stesso, sia per la società più in generale. Le virtù artificiali, hanno anch’esse tale fondamento naturale, ma richiedono in più il requisito “artificiale” dell’approvazione sociale che ha una natura puramente convenzionale.

Convenzionale, in questo contesto, non significa naturalmente arbitrario quanto piuttosto fondato sull’accordo delle parti in causa. Una volta stabilita l’artificialità della virtù della giustizia Hume fa un passo ulteriore per consolidarne in modo adeguato le fondamenta facendo riferimento, come John Locke prima di lui, alla relazione tra giustizia e proprietà privata. “La proprietà di un uomo è un oggetto di relazione con lui – scrive Hume nel Trattato - questa relazione non è naturale, ma morale e basata sulla giustizia: è del tutto assurdo, quindi, immaginare che si possa avere un’idea della proprietà senza comprendere appieno la natura della giustizia, e senza mostrare la sua origine nell’artificio e nell’invenzione degli uomini. L’origine della giustizia spiega quella di proprietà; è lo stesso artificio che dà vita a entrambe”. Giustizia e proprietà indissolubilmente legate, anzi l’una origine dell’altra.

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