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La morale o la paura? Sulla natura del legame politico secondo Thomas Hobbes

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 07/05/2023

È, naturalmente, molto complicato sintetizzare in poche frasi il pensiero di un gigante della filosofia politica moderna come Thomas Hobbes. Ma se proprio volessimo indulgere in un simile esercizio dovremmo affermare che il ruolo fondamentale di Hobbes è stato quello di mettere in discussione l’assunto aristotelico relativo alla naturale socievolezza dell’essere umano e trarre da questa mossa tutte le conseguenti implicazioni di natura politica.

Vita in comune come “guerra di tutti contro tutti”

La vita in comune, per l’inglese, non si regola naturalmente grazie alle nostre innate tendenze cooperative, come sosteneva lo stagirita. La vita in comune, nel suo stato naturale, non è altro che una “guerra di tutti contro tutti”. Perché non siamo politikòn zôon, animali politici, ma, piuttosto, individui unicamente spinti dal conatus sese conservandi, dall’istinto di autoconservazione.

La delega dell’uso della forza al Leviatano

Per questo l’unica via per poter vivere insieme e in pace prevede il ricorso all’azione di una parte terza, il Leviatano, cui deleghiamo l’uso della forza necessaria a costringerci a rispettare gli accordi e, in questo modo, del tutto paradossale, a tutelare i nostri migliori interessi.

Lo stato di natura

Lo stato di natura è, per Hobbes, quello che i teorici dei giochi chiamerebbero un “dilemma del prigioniero”. Immaginate una situazione nella quale due amici vengono sospettati di un crimine. Convocati in Questura, vengono interrogati separatamente, in due stanze isolate l’una dall’altra. Ognuno dei due amici sa che è innocente, ma non sa niente circa l’innocenza dell’altro. Hanno, a questo punto due possibilità: non rispondere alle domande della polizia o accusare l’amico. Se entrambi evitano di rispondere, la polizia non riuscirà a raccogliere prove sufficienti su cui agire e dovrà rilasciare entrambi gli amici dopo qualche giorno. Ma se io mi aspetto che il mio amico non dirà nulla alla polizia, potrei essere tentato di accusarlo. In questo caso, infatti, verrei rilasciato immediatamente senza dover passare neanche un minuto in più in stato di fermo. Se tu stai zitto e io ti accuso, tu però, dovrai essere trattenuto a lungo ed indagato. Allo stesso modo, tu potresti avere la stessa tentazione e scegliere di accusarmi, confidando nel mio silenzio. A quel punto tu verresti rilasciato ed io trattenuto. C’è una quarta possibilità: per evitare il rischio di finire tradito dall’amico, ognuno potrebbe decidere di accusare l’altro. In questo caso entrambi verremmo trattenuti in Questura per ulteriori, lunghe, indagini.

Tra tutt’e quattro le alternative possibili la migliore sarebbe, naturalmente, quella in cui nessuno dei due amici accusasse l’altro. In questo caso, infatti, entrambi potrebbero velocemente tornarsene a casa. Eppure, questa evenienza non è quella più probabile. Se assumiamo, infatti, che entrambi gli amici vogliano passare in Questura il minor tempo possibile, allora ognuno di loro sarà spinto ad accusare l’altro. In questo modo, qualunque cosa faccia la controparte, si otterrebbe di stare in Questura il minor tempo possibile. Questo ragionamento verrà fatto da entrambi i protagonisti della vicenda i quali, se solo fossero capaci di fidarsi, potrebbero ridurre il tempo nel quale vengono trattenuti in Questura, finiranno, invece, per essere indagati entrambi a causa delle rispettive accuse.

Il dilemma del prigioniero

Logicamente, infatti, la scelta di accusare l’altro è la scelta migliore per soggetti interessati esclusivamente a perseguire il loro interesse individuale. Il “dilemma del prigioniero” è una situazione paradigmatica che ritroviamo in moltissimi esempi di interazioni sociali, economiche, politiche, e che mostra come, non di rado, il tentativo di ottenere il massimo per sé senza tener conto della condizione di interdipendenza che ci lega agli altri, rischia di determinare conseguenze che sono peggiori sia da un punto di vista individuale che da un punto di vista sociale, rispetto a quelle che si potrebbero raggiungere se ciascuno fosse un po’ meno razionale ma magari più ragionevole. Potremmo, per esempio, decidere di fidarci degli altri confidando nella loro onestà, nel loro amore per la reputazione, nel loro rispetto delle norme morali. Nel sistema di pensiero hobbesiano, però, come abbiamo visto nei Mind the Economy delle settimane scorse, questa possibilità di fondare la convivenza civile sulla sola fiducia viene radicalmente esclusa.

Grazie a un soggetto terzo si risolve il dilemma

Lo stato di natura, infatti, non è altro che un dilemma del prigioniero giocato da una moltitudine di giocatori, ognuno dei quali condannato al conflitto, al tradimento, ad una vita che Hobbes stesso definisce «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». La soluzione al “dilemma”, così come l’uscita dallo stato di natura, diventerà possibile solo grazie all’intervento di un soggetto terzo, il Leviatano, mostro terribile e necessario, al quale i cittadini consegneranno di buon grado quota della propria libertà delegando al mostro l’uso della forza; forza necessaria per indurre i cittadini al rispetto di quegli accordi volti alla tutela del loro migliore interesse, ma che in assenza di coercizione essi stessi non sarebbero in grado di rispettare.

Se abbiamo la libertà non potremmo avere l’efficienza e viceversa, sembra affermare Hobbes. Una conclusione dimostrata matematicamente molti secoli dopo dal premio Nobel per l’economia, l’indiano Amartya Sen, che con il suo “teorema di impossibilità del liberale paretiano” mostra formalmente che non sempre la libertà può andare di pari passo con l’efficienza (“The Impossibility of a Paretian Liberal”. Journal of Political Economy 78, pp. 152-157).

Il contrattualismo

La soluzione proposta da Hobbes pone le fondamenta per lo sviluppo di una fertilissima corrente di pensiero che andrà sotto il nome di “contrattualismo” e che è arrivata ben in salute fino ai nostri giorni. Alla base c’è l’idea rivoluzionaria, per i tempi in cui egli scrive, secondo cui il potere politico è un potere che nasce per convenzione, dall’accordo dei cittadini; un potere che non è necessitato e che può assumere forme variegate, che possono, di volta in volta, essere messe in discussione, migliorare, perfezionate, sempre ed esclusivamente sulla base di un accordo pubblico. Nessuna forma di governo è “naturale”, scontata, definita per immutabile diritto divino.

Il governo, dunque, la sua legittimazione politica, nasce e si rafforza come soluzione al dilemma della vita in comune, necessarie e conflittuale, allo stesso tempo. Ma quanto è generale questa conclusione? Quanto è davvero necessario il potere assoluto per «imbrigliare l’ambizione, l’avarizia, l’ira, e le altre passioni degli uomini» come scrive Hobbes? In gran parte ciò dipende dalle assunzioni di natura antropologica che egli pone alla base della sua teoria: homo omini lupus, come si ricorderà.

È, d’altro canto, necessario evitare letture semplicistiche e superficiali dell’antropologia hobbesiana. Egli, infatti, non descrive gli esseri umani propriamente come volenterosi carnefici dei propri simili. Pone, piuttosto, l’accento su un «assetto psicologico largamente autocentrato», come nota John Rawls. «Quando le persone deliberano sulle questioni politiche sociali fondamentali – continua il filosofo americano - nei loro pensieri e nelle loro azioni tendono ad attribuire priorità alla propria preservazione e alla propria sicurezza, a quella delle loro famiglie (…) Nel Leviatano Hobbes non dice che le persone hanno una psicologia egoista, o che ambiscono o si interessano solo al proprio bene (…) Egli afferma che siamo capaci di benevolenza; di desiderare il bene di un altro, ossia di buone intenzioni; e di carità. Egli afferma che siamo capaci di amare le persone (…) afferma anche che alcune persone sono virtuose, o che siamo capaci di virtù – che le persone fanno ciò che è giusto, nobile o onorevole perché vogliono essere qualcuno che si comporta così, e vogliono essere riconosciute come tali».

Perché, allora, invece, nell’arena politica egli ci descrive come lupi ognuno dell’altro uomo? Perché la socievolezza della nostra natura non è ritenuta una base sufficientemente solida, una base capace di garantire un’esistenza comune pacifica e sicura. «La politica, naturalmente, è solo una parte della condotta umana – continua Rawls, nella sua terza lezione sul pensatore inglese - e Hobbes non ha bisogno di negare che possiamo essere, e spesso siamo, benevoli, che siamo capaci delle virtù della giustizia e della fedeltà, e così via. Il suo punto è che non si dovrebbe fare affidamento su queste capacità umane quando si offre un resoconto della società civile e della base dell’unità sociale. In altre parole, esistono altri interessi fondamentali sui quali, se si può, si dovrebbe basare l’unità della società civile (…) innanzitutto il nostro».

Questa posizione oggi ci appare per molti versi radicale, e vedremo nel dettaglio molte delle critiche che successivamente sono state portate alla costruzione hobbesiana. Non dovremmo per questo, però, mai perdere la giusta prospettiva storica nelle nostre valutazioni.

L’epoca di Hobbes

Siamo a metà del XVII secolo e il mondo si presentava molto diverso da quello che conosciamo noi oggi. Non dovremmo sottovalutare, per questa ragione, la geniale innovazione che il filosofo inglese porta nel panorama della cultura politica del suo tempo. Nonostante questa avvertenza è necessario evidenziare come il limite vero dell’impianto hobbesiano – ne discuteremo a lungo – è quello di ridurre l’idea di giustizia a mero rispetto degli accordi di mutuo vantaggio. Una impostazione che arriverà fino ai nostri giorni attraverso autori come David Gauthier o James Buchanan ma dalla quale altri contrattualisti come John Rawls prenderanno nettamente le distanze.

Il discrimine

La politica deve limitarsi a creare le condizioni per una convivenza che garantisca a ciascuno il mutuo vantaggio o deve occuparsi, piuttosto, di creare condizioni di giustizia? È questo il discrimine su cui si misureranno nei secoli a seguire tradizioni importanti che posizionano le loro origini sotto l’ala protettrice del Leviatano ma che in modi anche molto differenti interpreteranno e svilupperanno l’eredita hobbesiana. Il discrimine si pone relativamente al fatto che l’essere umano abbia una sua intrinseca struttura morale che lo può guidare verso il bene o quanto meno allontanare dal male oppure che l’unica guida all’azione sociale sia, come sostiene Hobbes, la paura di una sanzione imposta esternamente? «L’origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini, ma il reciproco timore», afferma, infatti, perentoriamente nel De Cive. È sulla risposta a questa domanda – bussola morale o egoistica paura? – che si giocheranno le sorti di gran parte della filosofia politica che seguirà nei secoli a venire, ma non solo rispetto alla filosofia pensata, quanto a quella applicata, quella che sta alla base delle forme di governo, della sorgiva origine delle nostre istituzioni, del pensiero che porterà alla creazione delle forme e delle strutture che accoglieranno, condizionandone i destini, la vita in comune di miliardi di persone per molto tempo e molto tempo ancora.

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