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La paura e la speranza. Thomas Hobbes e la nascita dell’idea moderna di giustizia

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 23/04/2023

Come ha autorevolmente sostenuto Norberto BobbioIl pensiero politico di tutti i tempi è dominato da due grandi antitesi: oppressione-libertà, anarchia-unità”. Thomas Hobbes, un gigante del pensiero occidentale e con tutta probabilità il primo pensatore politico moderno nel vero senso della parola, appartiene decisamente alla schiera di coloro che hanno prediletto la seconda antitesi, il conflitto tra anarchia e unità. “L’ideale che egli difende – continua Bobbio - non è la libertà contro l’oppressione, ma l’unità contro l’anarchia. Hobbes è ossessionato dall’idea della dissoluzione dell’autorità, dal disordine che consegue alla libertà del dissenso sul giusto e sull’ingiusto, dalla disgregazione dell’unità del potere (…). Il male che egli paventa maggiormente, e contro il quale si sente chiamato a erigere la suprema e insuperabile difesa del proprio sistema filosofico, non è l’oppressione, che deriva dall’eccesso di potere, ma l’insicurezza, che deriva al contrario, se mai, dal difetto di potere” (Thomas Hobbes, Einaudi, 2004). Una insicurezza che è capace di mettere a repentaglio ogni cosa, innanzitutto, il primum bonum della vita, così come i beni materiali, e la stessa libertà individuale.

La società frutto del disegno umano

La prima rottura che il pensiero hobbesiano opera con la tradizione di chi lo aveva preceduto si ha con un cambiamento radicale di prospettiva. Mentre per Aristotele e le innumerevoli schiere dei suoi epigoni, le associazioni politiche, la polis, prima di tutto, sono frutto di un naturale télos, di una causa finale posseduta dall’uomo, essere politico per natura, a partire da Hobbes, al contrario, il mondo sociale acquista carattere convenzionale, è frutto cioè di un disegno umano, di una costruzione artificiale, un’opera delle scelte umane. L’implicazione più importante che deriva da questo approccio riguarda il fatto che tale costruzione, quindi, potrà essere modificata, ripensata, migliorata. Nella misura in cui le forme dell’associazione politica possono essere perfezionate, dovrà essere compito della ragione, della conoscenza e dell’ingegno umano operare in quella direzione.

Questo il compito ultimo della filosofia secondo Hobbes. Un compito che diventerà centrale per tutto il pensiero politico e sociale occidentale fino all’Illuminismo e oltre. Impressionati dai successi della scienza moderna – Hobbes durante i suoi viaggi conoscerà Galileo ed entrerà in contatto con il gruppo dell’Académie française di Mersenne – pensatori come Montesquieu, Rousseau, Beccaria, Bentham e Condorcet, spinti dalla stessa visione della perfettibilità delle istituzioni umane che Hobbes aveva introdotto, si daranno non solo il ruolo di pensatori ma anche quello di veri e propri riformatori sociali.

Hobbes fondatore della filosofia politica moderna

Questa tradizione modificò radicalmente la cornice culturale entro la quale è possibile, anche oggi, approcciare il tema della giustizia.  “L’impatto più decisivo di quel modo di pensare l’idea di giustizia è stato quello di suggerire una nuova domanda, vale a dire: come possono gli esseri umani ridisegnare e ricostruire il terreno del mondo sociale in modo da rendere giusto quel terreno stesso?” (Johnston, D., A Brief History of Justice. Wiley & Sons, 2011). Che si fosse d’accordo o contrari a questo approccio, dopo Hobbes e fino ai giorni nostri, ignorare tale questione divenne impossibile.

Per avere una idea sia pure impressionistica dell’importanza che il pensiero di Hobbes continua ad esercitare ancora oggi basti considerare la scelta di John Rawls, il più importante filosofo politico del Novecento, di inaugurare per molti anni il suo corso all’Università di Harvard con una lezione sul pensiero del suo “collega” inglese. “Perché comincio un corso di filosofia politica con Hobbes? – si chiede Rawls (…) La ragione è che secondo me il Leviatano di Hobbes è il più grande libro di filosofia politica che sia mai stato scritto in lingua inglese. Quando dico questo non voglio dire è che è quello che si avvicina di più alla verità, o che è il più ragionevole. Piuttosto, voglio dire che tutto considerato – incluso il suo stile e il suo linguaggio, la sua portata, la sua acutezza e la sua stimolante vivacità di osservazione, la sua intricata struttura di analisi e di principi, e la sua presentazione di ciò che io ritengo sia un modo spaventoso di pensare alla società, che potrebbe quasi essere vero, e che è una possibilità effettiva e agghiacciante – se si sommano tutte queste cose, il Leviatano mi fa un’impressione smisurata”.

Una seconda ragione non meno importante – continua sempre Rawls – è che “È utile pensare alla filosofia morale e politica moderna come a qualcosa che ha avuto inizio con Hobbes, e con la reazione a Hobbes” (Lezioni di storia della filosofia politica, Feltrinelli, 2009) .

Queste poche considerazioni dovrebbero aver messo in chiaro la centralità della figura del pensatore inglese nella storia delle idee e nell’evoluzione che non solo la riflessione filosofica ha compiuto da allora in avanti, ma anche la nostra concezione della vita in comune, del diritto, dello Stato, delle istituzioni e della loro natura più profonda.

Il Leviatano

Il pensiero politico di Hobbes trova la sua più compiuta esposizione nel Leviatano, pubblicato in inglese nel 1651. Erano anni turbolenti quelli. In Inghilterra, proprio, lo stesso anno aveva avuto termine una guerra civile durata quasi un decennio che portò al regicidio di Carlo I e ad una divisione profonda sia sul piano politico che su quello religioso. Nel resto d’Europa la Guerra dei Trent’anni aveva seminato morte e distruzione fino al 1648. Si capisce perché, quando il grande politologo tedesco Carl Schmitt scrive dell’autore del Leviatano, afferma che “l’inglese aveva diretta esperienza dello “stato di natura”, cioè della guerra civile, su cui aveva costruito lo Stato;” (Scritti su Thomas Hobbes, Giuffré, 1986).

Lo “stato di natura” è proprio il punto di partenza della teoria hobbesiana del potere. È una condizione nella quale le relazioni umane non sono regolate da nessuna norma esterna e sono dunque libere di svilupparsi secondo le forme della “naturalità”. Cosa caratterizza questa naturalità? Hobbes ci da questa descrizione: “La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, benché talvolta si trovi un uomo palesemente più forte, nel fisico, o di mente più pronta di un altro, tuttavia, tutto sommato, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole al punto che un uomo possa da ciò rivendicare per sé un beneficio cui un altro non possa pretendere tanto quanto lui”.

Gli uomini sono fondamentalmente uguali in forza ed intelletto. Ma questa è tutt’altro, nella sua prospettiva, che una buona notizia. “Infatti – prosegue - quanto alla forza corporea, il più debole ne ha a sufficienza per uccidere il più forte, sia ricorrendo a una macchinazione segreta, sia alleandosi con altri che corrono il suo stesso pericolo”. Questa uguaglianza crea una situazione nella quale ogni essere umano condivide con tutti gli altri una reciproca “uccidibilità”. Siamo fragili e vulnerabili anche perché – continua Hobbes “da questa uguaglianza di capacità nasce un’uguaglianza nella speranza di raggiungere i propri fini”.

Siamo uguali e quindi abbiamo naturalmente una stessa pretesa alle risorse, alle proprietà, ai beni che desideriamo i quali, però, essendo limitati in numero, non potranno andare a tutti contemporaneamente. “Perciò – prosegue il ragionamento - se due uomini desiderano la medesima cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, diventano nemici e, nel perseguire il loro scopo (…) cercano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. Onde accade che, laddove un aggressore non ha che da temere il potere individuale di un altro uomo, se uno pianta, semina, edifica o possiede una posizione vantaggiosa, ci si può verosimilmente aspettare che altri, armati di tutto punto e dopo aver unito le loro forze, arrivino per deporlo e privarlo, non solo del frutto del suo lavoro, ma anche della vita o della libertà. Ma il nuovo aggressore corre a sua volta il rischio di un’altra aggressione”.

Il pericolo dello stato di natura

L’uguaglianza, il desiderio di autoconservazione e la naturale scarsità delle risorse a disposizione determinano congiuntamente una condizione di continuo pericolo che Hobbes definisce bellum omnia contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. Se anche considerassimo un uomo fondamentalmente pacifico e mite, a causa della diffidenza reciproca che si genera nello stato di natura, conclude Hobbes, “non esiste (…) un mezzo di difesa così ragionevole quanto l’agire d’anticipo, vale a dire l’assoggettare, con la violenza o con l’inganno, la persona di tutti gli uomini che può, fino a che non vede nessun altro potere abbastanza grande da metterlo in pericolo”. Né possiamo concludere, dunque, che “quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”.

Lo stato di natura, dunque, sfocia in una condizione terribile nella quale regnano la paura e l’incertezza, una condizione che blocca ogni possibile sviluppo e potenziale progresso. “In tali condizioni – infatti - non vi è posto per l’operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non vi è né coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare, né costruzioni adeguate, né strumenti per spostare e rimuovere le cose che richiedono molta forza, né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società”. Allo stesso modo non esiste la proprietà, la distinzione tra ciò che è mio e ciò che è tuo; le cose appartengono a coloro che riescono a prendersele e a tenersele. E la condizione umana è precaria ed esposta al “continuo timore e pericolo di una morte violenta”. Una vita che in conclusione sarà “solitaria, misera, ostile, animalesca e breve”. Questo è lo stato di natura secondo Hobbes, una condizione di miseria e solitudine, di continuo pericolo e di profonda incertezza. In questa condizione non esiste la giustizia e neanche l’ingiustizia perché dove non vi è una legge non può esserci neanche la sua ingiusta violazione.

Ma cosa intendeva descrivere esattamente Hobbes con questa rappresentazione dello stato di natura? Che senso dovremmo attribuire a questa immagine oggi? Certamente non aveva in mente un momento storico ben preciso. Anche se a chi obbietta che un vero e proprio stato di natura non sia storicamente mai esistito, egli replica che, in realtà, almeno per i re e i sovrani la condizione di potenziale guerra di tutti contro tutti rappresenta bene una concreta condizione storica. Ma il suo ragionamento va ancora più in profondità e si fa sottile. Per capire cos’è lo stato di natura, afferma, sarebbe sufficiente provare a pensare a cosa capiterebbe qui ed ora se improvvisamente venisse meno ogni autorità sovrana. “Concepito in questo modo, - chiosa Rawls nelle sue Lezioni - lo stato di natura è una possibilità sempre presente di degenerazione nella discordia e nella guerra civile”.

Passioni e ragione

Con questa descrizione Hobbes allestisce il palco per l’entrata in scena dei veri protagonisti principali del suo racconto: le passioni e la ragione. Per uscire dalla “triste condizione in cui l’uomo è realmente posto dalla nuda natura (…) la possibilità risiede in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione”. Le passioni considerate sono metus et spes, la paura e la speranza. La paura della morte violenta e la speranza di poter godere dei benefici del proprio operoso ingegno. E la ragione è ciò che “suggerisce opportune clausole di pace sulle quali si possono portare gli uomini a un accordo”.

La scintilla della razionalità accende la speranza nell’esistenza di una via d’uscita dallo stato di natura. Una via d’uscita che prende la forma di un accordo che vincola ogni uomo e ogni donna al rispetto delle regole che quegli stessi uomini e quelle stesse donne avranno deciso di darsi. La prima regola che caratterizzerà quest’accordo è il trasferimento agli altri di quei diritti che, se negati, sarebbero d’impedimento alla pace. Da questa prima legge ne consegue una seconda: i patti vanno rispettati.

Queste due radici, da cui avrà sviluppo il vero e proprio contratto sociale, sono dunque, per Hobbes, “la fonte e l’origine della giustizia. Infatti, dove non è intercorso alcun patto, neppure è stato trasferito alcun diritto, e ognuno ha diritto a ogni cosa, nessuna azione può essere ingiusta. Ma quando sia stato fatto un patto, allora ingiusto è l’infrangerlo e la definizione di ingiustizia altro non è che il non adempimento del patto”. È proprio la giustizia, dunque, il fine ultimo del contratto sociale. Quali saranno le caratteristiche di questo “contratto”, la sua natura e in che modo e perché esso costituisce l’atto di nascita del Leviatano e della sua caratteristica distintiva: il monopolio del potere politico? Avremo modo di scoprirlo nelle prossime settimane, con chi vorrà proseguire su Mind the Economy, questo appassionante viaggio alla scoperta della storia e dell’evoluzione dell’idea di giustizia.

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