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Cicerone e la nascita della giustizia cosmopolita

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 12/03/2023

Ci sono non pochi elementi della teoria aristotelica della giustizia che hanno esercitato una influenza profonda nel pensiero successivo e alcuni di questi sono arrivati quasi intatti fino a noi. Altri, però, appaiono alla sensibilità moderna decisamente arcaici se non addirittura offensivi. Uno di questi aspetti fa riferimento, per esempio, al fatto che per Aristotele la giustizia è “locale”, sia nel senso che essa si esercita e si può sviluppare esclusivamente all’interno della polis, sia per il fatto che ha senso parlare di giustizia solo tra eguali. Come Platone e molti altri pensatori antichi, Aristotele credeva che le persone differissero nelle capacità per natura e che tali differenze ne stabilissero il ruolo sociale all’interno della polis e, con esso, i diversi diritti associati ad un ordine sociale diseguale per natura. Nei secoli successivi questi presupposti della teoria aristotelica, assieme a molti altri, vennero messi in discussione e, in definitiva, superati nelle elaborazioni successive del pensiero politico occidentale.

La giustizia locale

La qualità “locale” della giustizia non era naturalmente una prerogativa dei greci. Babilonesi ed Ebrei condividevano, per esempio, la stessa propensione a considerare soggetti a norme di giustizia solo i rapporti con persone accomunate dalla stessa identità politica o culturale. Con gli altri, gli stranieri era perfettamente lecito usare l’inganno e la violenza.

Nella Politica, ad un certo punto, Aristotele fa un accenno che sembra indicare uno slittamento dalla dimensione locale ad una più globale della giustizia. In un passaggio, riferendosi a Sparta e Creta, sostiene che proprio perché gli spartani e i cretesi si aspettano un giusto trattamento dagli altri popoli con cui vengono in contatto, dovrebbero, per questo stesso motivo, essere capaci di trattare con eguale giustizia quegli stessi popoli. Aristotele sta, in questo modo, suggerendo di estendere l’idea di giustizia, oltre la cerchia del gruppo politicamente e culturalmente omogeneo? I commentatori non si spingono fino a questo punto. Al di fuori del mondo greco, infatti, sono tutti “barbari” e Aristotele li considerava intellettualmente inferiori ai greci.

La giustizia cosmopolita

Le cose iniziano a cambiare come conseguenza del tradizionale disprezzo dei cinici per le convenzioni che li portano a mettere in discussione punti consolidati del pensiero dominante e poi soprattutto, con gli stoici. È con Zenone di Cizio, in particolare, che la giustizia smette di essere legge esclusiva dalla polis per essere riconosciuta come norma centrale del kosmos, del mondo. Il mondo diventa la kosmopolis, la città universale e gli esseri umani, tutti gli esseri umani, i suoi cittadini. Diogene di Sinope, non a caso aveva preso a definirsi “kosmopolitês”, “cittadino del mondo”.

Fu questa la visione del mondo e del posto che in esso possiamo avere conducendo vite virtuose e secondo ragione, che più fece breccia tra le élite della Roma ellenistica e poi Imperiale. Gli stessi miti fondativi dell’Urbe fanno riferimento alla inclusione delle differenze, alla compresenza degli opposti. Roma fu fondata sulla base di un trattato che regolava la coesistenza di popoli diversi e ostili. Per i romani è questa legge (lex) che dà effetto alla giustizia (ius). Il diritto, ius, che fonda la giustizia (iustitia) è l’immagine di quel movimento che congiunge (iungerte) i diversi, perfino i contrari, in uno, le parti in guerra, in una comunità pacificata.

Una giustizia tra diversi

Romolo e Remo gemelli che si uccidono, simboleggiano la sterilità dell’identità. La città nasce davvero solo con l’inclusione e la partecipazione del diverso. Romolo da solo non può far nascere niente. Il rapimento delle sabine sembra una soluzione. Quando scoppia la guerra sono proprio loro, le donne vittime del rapimento a generare la pace. Si frappongono tra le due fazioni propiziando l’accordo della Via Sacra. Da quel momento Romolo regnerà su Roma assieme al re sabino Tito Tazio. Roma nasce come congiunzione dei diversi.

Al centro della città troviamo il foro. Il foro non è l’agorà di Atene. È un luogo di inclusione, adunanze, contese e scambi. Il luogo dove si riuniva la civitas, l’insieme di tutti i cittadini. E come ci ricorda Peter Murphy nel suo Civic Justice: From Greek Antiquity to the Modern World (Humanity Books, 2001), questo era uno spazio “multidimensionale”. “E per essere perpetuata tale multidimensionalità richiedeva da parte dei romani un senso di giustizia. La giustizia era la qualità principale della città. Senza giustizia la città vera e propria non potrebbe sostenersi. Se diverse forze sociali (classi, tribù, etnie) dovevano trovare un’unione nella città, allora bisognava trovare il modo di adattare una forza all’altra”.  Il termine “adattare” appartiene ad una nuvola semantica di termini latini che trova la sua radice in iu- che indica il “legare”. Troviamo termini come iungere (“unire”) e adiuxtare (“adattare/adeguare”) formato da ad (“verso”) e iuxta (“unione”). Ma come sempre ci ricorda Murphy, “Adattarsi richiede un senso di imparzialità, una capacità di distaccarsi dalle pretese e dai sentimenti dei soggetti primari, di allontanarsi dalla propria patria".

L’imparzialità era una condizione fondamentale della città. La città ha riunito persone con origini diverse che non provenivano dalla stessa tribù e le cui storie di vita erano tangenziali. Queste persone, poiché non condividevano la stessa narrazione della vita, gli stessi rituali, le stesse convenzioni, le stesse tradizioni, hanno dovuto trovare un modo per regolare forme di vita "contrastanti”, un modo per adattarsi. È la giustizia questo modo, una giustizia tra diversi, seppure non ancora una “giustizia globale”, come diremmo oggi.

Cicerone e la “giustizia quasi-globale”

Forse il più influente esponente di questa idea di giustizia “quasi-globale” fu Marco Tullio Cicerone. Con una certa continuità con la linea Aristotelica della proporzionalità, Cicerone fa sua l’idea di giustizia come distribuzione a ciascuno del suo (“iustitia, quae suum cuique distribuit”) ma la inserisce, soprattutto nel De legibus, in una cornice cosmopolita che secondo molti prefigura le aspirazioni universalistiche dell’Impero. “Di tutto ciò di cui si occupano le discussioni dei dotti - fa dire Cicerone al suo alter ego letterario Marco - nulla è certamente più importante del capire chiaramente che noi siamo nati per la giustizia, e che il diritto non è stato fondato per una convenzione, ma dalla natura stessa. E ciò sarà del tutto chiaro, se analizzerai la società ed il legame reciproco tra gli stessi uomini”. La giustizia deriva direttamente da una legge di natura. E la sua universalità discende dall’unica radice che accomuna tutti gli esseri umani. Continua Cicerone: “Non esiste una sola cosa tanto simile all’altra, tanto uguale, come siamo noi fra noi stessi. Che se la corruzione dei costumi o la varietà delle opinioni non deformasse e piegasse la debolezza degli animi, ovunque questa si indirizzasse, nessuno sarebbe tanto eguale a sé stesso quanto lo sono tutti fra di loro. Di conseguenza, qualunque sia la definizione di uomo, una sola è valida per tutti”. Ed è, in particolare la ragione che ci rende simili gli uni agli altri. “Del resto la ragione, con la quale ci differenziamo dai bruti, per mezzo della quale possiamo congetturare, argomentare, controbattere, discutere, eseguire qualsiasi cosa, è certamente comune a tutti gli uomini, differente per costituzione, ma eguale quanto a capacità di apprendere”.

Lo snodo cruciale

Il senso di giustizia allora si sviluppa attraverso una comprensione collettiva rafforzata dall’interazione con gli altri, proprio perché la giustizia è al tempo stesso naturale e universale. Ne deriva che in rottura con la visione “locale” della giustizia, per Cicerone come per gli stoici e i cinici prima di lui, siamo obbligati per natura ad essere giusti nei nostri rapporti con gli altri, a prescindere dal vincolo culturale o politico che condividiamo con loro. Perché il saggio, quando “avrà spinto lo sguardo attraverso il cielo, la terra, i mari e tutta la natura dell'universo, ed avrà visto donde sia stata generata, dove essa dovrà un giorno ritornare, in qual modo dovrà perire e che cosa fra questi oggetti vi sia di mortale e caduco e che cosa di divino e di eterno comprenderà che non è solo circondato dalle mura, come cittadino di un qualche luogo limitato, ma avrà riconosciuto di essere cittadino di tutto il mondo, come quasi di una unica città”.

È questo lo snodo cruciale che ha fatto sì che l’idea di una giustizia universale tra tutti gli uomini acquistasse un posto centrale nel pensiero occidentale. A partire da Cicerone avremo poi l’influenza fondamentale del diritto codificato, in particolare, dopo il crollo dell’Impero Romano d'Occidente, del Digesto giustinianeo del VI secolo. Sarà la cristianità a raccogliere l’eredità dell’universalismo ciceroniano, traghettatore nella prima modernità dei valori del pensiero greco classico. Ut omnes unum sint (“che tutti siano una cosa sola”) recita un passo chiave del Vangelo giovanneo che fa dire a Gesù: “Non soltanto per questi io prego ma anche per quelli che, attraverso la loro parola, crederanno in me, che tutti siano una cosa sola, e come tu, Padre, sei in me e io sono in te, così anch’essi siano in noi una cosa sola." (17, 20-22).

Questo è la radice attraverso la quale la visione universalistica della giustizia germoglia e fruttifica nella filosofia morale e politica moderna. Non senza critiche e nuove sfide. Come sottolinea, infatti, David JohnstonInfluenti filosofi moderni hanno sostenuto l’idea che molti, se non tutti, i doveri di giustizia siano subordinati all’esistenza di legami significativi e non universali tra le persone” (“A Brief History of Justice”, Wiley & Sons 2007). Continua sempre il filosofo della Columbia con tono vagamente profetico “L’avvento dell’idea di giustizia universale ha piantato un seme che ha il potenziale per trasformare in modo decisivo le idee occidentali sulla giustizia. Se questo seme sarà coltivato in futuro in modo più sistematico e con più successo rispetto a quanto abbiamo fatto finora è la domanda più importante che oggi possiamo e dobbiamo porre a noi stessi”.

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