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Il valore (anche economico) delle intenzioni

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 11/09/2022

Secondo Herbert Gintis, economista dell'università del Massachusetts il problema con la descrizione delle scelte umane incorporata nella teoria economica non risiede tanto nella presunzione di razionalità: “L'assunto che gli esseri umani siano razionali – infatti – è un'eccellente prima approssimazione”, afferma Gintis, il problema vero risiede nell'incapacità della teoria a cogliere la naturale socialità dell'uomo: “Gli esseri umani hanno un'epistemologia sociale, nel senso che abbiamo processi di ragionamento che ci offrono forme di conoscenza e comprensione, in particolare la comprensione e la condivisione del contenuto di altre menti, che non sono disponibili per le creature semplicemente ‘razionali'. Questa epistemologia sociale caratterizza la nostra specie. Il limite della ragione non è dunque l'irrazionale, ma il sociale” (The Bounds of Reason, Game Theory and the Unification of the Behavioral Sciences, Princeton University Press, 2009).

Questi limiti hanno iniziato a manifestarsi in particolare nell'area di indagine relativa ai comportamenti cooperativi, i quali difficilmente possono essere compresi facendo esclusivo riferimento ai concetti della teoria standard. Tale ambito di analisi, dunque, rappresenta un interessante terreno nel quale è possibile discutere quelle limitazioni della teoria classica che non sono tanto imputabili a un deficit di razionalità, quanto piuttosto ad uno di socialità. In questo senso l'introduzione di categorie marcatamente relazionali, come quelle di fiducia e di reciprocità, ha portato a notevoli progressi verso la creazione di una teoria più adeguata descrittivamente, e maggiormente capace di produrre una visione di agente genuinamente “sociale”.

In un famoso esperimento Kevin McCabe, Mary Rigdon e il premio Nobel Vernon Smith prendono in considerazione le scelte in due versioni del cosiddetto “gioco della fiducia” (trust game). Nella prima versione, che viene definita “trust game volontario”, il giocatore A ha due alternative: se sceglie la prima può vincere $20 e può far vincere la stessa somma anche ad un altro partecipante con cui è abbinato anonimamente. Se sceglie la seconda alternativa passa la palla a questo secondo partecipante (il giocatore B) che potrà a sua volta scegliere tra due opzioni: la prima fa guadagnare $25 ad entrambi i giocatori; con la seconda il giocatore B vincerà $30 e il giocatore A solamente $15.

In una seconda versione di questo gioco, chiamata “trust game involontario” il giocatore A non ha nessun ruolo attivo. Solamente il giocatore B può fare le sue scelte che sono in tutto e per tutto simili a quelle della versione “volontaria” del gioco: la prima opzione fa guadagnare $25 ad entrambi i giocatori; la seconda, invece, $30 a B e solo $15 ad A. La teoria classica che assume individui razionali, autointeressati e motivati esclusivamente dalle possibili conseguenze delle loro azioni, procede retrospettivamente prevedendo che nel gioco “volontario” il giocatore A anticiperà la mossa opportunistica di B ($30 per sé e $15 per A) e per questo preferirà giocare la sua prima opzione che farà ottenere $20 a testa. Nella versione “involontaria” la previsione sul comportamento di B è identica: per massimizzare il suo guadagno, questi sceglierà la seconda opzione che fa ottenere $30 a B e $15 ad A. Come sappiamo, però, non sempre le persone si comportano in maniera totalmente autointeressata. Su Mind the Economy abbiamo incontrato molti esperimenti e casi concreti di scelte basate su criteri differenti, in particolare sul principio di altruismo e su quello di avversione alla disuguaglianza.

Considerando queste teorie le previsioni cambierebbero radicalmente. Sia l'altruismo che l'equità porterebbero, infatti, una certa percentuale di giocatori B a scegliere l'opzione cooperativa ($25 a testa). Anticipando questa mossa, un certo numero di giocatori A deciderebbe di fidarsi scegliendo la propria seconda opzione mettendosi, in questo modo, nelle condizioni di determinare un mutuo vantaggio. Se consideriamo un numero elevato di partecipanti, dunque, il nostro esperimento dovrebbe mostrare una certa percentuale positiva di scelte cooperative sia da parte dei giocatori A che da parte dei giocatori B. La questione importante da notare è che sia altruismo che equità prevedono approssimativamente la stessa percentuale di mosse cooperative in entrambi i giochi. Questo perché, dal punto di vista dei giocatori B, le conseguenze delle loro scelte nei due giochi sono identiche. In entrambe le versioni dei giochi, infatti, il giocatore B deve decidere se guadagnare $30 e far guadagnare $15 ad A o se far guadagnare $25 sia ad A che a B.

Ma i dati dell'esperimento di McCabe e colleghi ci dicono, invece, qualcosa di diverso. La percentuale di mosse cooperative risulta, infatti, molto maggiore nel “trust-game volontario” (64.7%), piuttosto che in quello “involontario” (33.3%). Questo risultato implica che né la versione standard della teoria dei giochi, né i modelli basati sull'idea di altruismo o di equità, che prevedevano percentuali approssimativamente uguali di cooperazione, sono in grado di cogliere appieno le motivazioni che spingono i giocatori reali a fare le loro scelte in situazioni come quelle descritte più sopra.

Ciò che questi modelli non riescono a cogliere, in particolare, è, a detta degli autori dello studio, il ruolo cruciale che gioca nell'ambito delle relazioni interpersonali, la capacità di ascrivere intenzioni ai soggetti con i quali interagiamo. Nonostante, infatti, nei due trust games le conseguenze delle azioni del giocatore B siano identiche, nella versione “volontaria” appare evidente che il giocatore B ottiene la possibilità di fare la sua scelta come conseguenza di una scelta libera del giocatore A. Il giocatore B, avendo visto che il giocatore A avrebbe anche potuto scegliere di terminare il gioco senza consentirgli la scelta, ascrive all'azione di A delle intenzioni cooperative. Sono queste intenzioni che il giocatore B riesce a “leggere” e che lo spingono ad una risposta altrettanto cooperativa. Questo non avviene nel gioco “involontario”, nel quale, invece, il processo di lettura delle intenzioni è precluso dall'assenza di opzioni di scelta sul versante del giocatore A (McCabe, K., Rigdon, M., Smith, V. “Positive reciprocity and intentions in trust games”. Journal of Economic Behavior & Organization 52, pp. 267–275, 2003).

Il trust game descrive una relazione fiduciaria nella quale entrambe le parti possono godere dei benefici della cooperazione a patto che il primo si fidi e il secondo si dimostri affidabile. Questo genere di relazione mette in evidenza una dinamica intersoggettiva piuttosto complessa che la teoria standard non riesce a cogliere ma che, come abbiamo visto, neanche quelle basate su altruismo ed equità, riescono a spiegare. Una relazione fiduciaria può andare a buon fine solo se il giocatore B sceglie di reciprocare la mossa del giocatore A che deve essere interpretata come un atto di fiducia. In altri termini il giocatore B deve attribuire al giocatore A delle intenzioni fiduciose. Tale attribuzione di stati intenzionali ad altri fa parte di ciò che gli scienziati cognitivi chiamano “mentalizzazione”. Si tratta di un'operazione che attuiamo continuamente nelle nostre interazioni quotidiane con gli altri ai quali associamo credenze, finalità e desideri, in maniera inconscia e automatica. La teoria economica standard manca di questa prospettiva “intenzionale” e per questo non è in grado di descrivere quel processo che ci mette nelle condizioni di “comprendere e condividere il contenuto delle altre menti”, per citare nuovamente Herbert Gintis.

Le conseguenze che derivano da questo limite non sono affatto irrilevanti. Come sottolinea Robert Gibbons, un altro teorico dei giochi ed esperto di organizzazioni, infatti, “Una delle possibilità è che i modelli economici che ignorano gli aspetti psicologici e sociali possano essere delle descrizioni incomplete del funzionamento degli incentivi nelle organizzazioni. Una seconda, più allarmante possibilità, è che pratiche di management basate su tali modelli possano danneggiare (e perfino distruggere) realtà non economiche importanti come le motivazioni intrinseche e le relazioni sociali” (“Incentives in Organizations”, Journal of Economic Perspectives, 12(4), pp. 115–132, 1998). Conseguenze nient'affatto trascurabili. La teoria economica guida, infatti, non solo la politica economica a livello macro, ma anche, a livello micro, la progettazione istituzionale e organizzativa, il job design, la creazione degli schemi di incentivi, solo per fare qualche esempio. Una teoria incompleta ci darà indicazioni fuorvianti e perfino controproducenti rispetto a molti degli aspetti di queste attività. Chiunque sia interessato al benessere organizzativo non può trascurare questi elementi. A dire il vero chiunque sia interessato anche solo all'efficienza delle organizzazioni non può permettersi di trascurarli.

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