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Perché abbiamo bisogno di controllo sui controllori?

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il sole 24 ore il 24/07/2022

«Chi controlla i controllori?» si chiede Giovenale nella sesta delle sue Satire; e Platone ne La Repubblica, suggerendo ai controllori dello Stato di evitare l’ubriachezza per non essere costretti ad essere controllati a loro volta, definisce “ridicola” una situazione nella quale “un custode abbia bisogno di un altro custode”. Eppure, gli economisti non sono tutti convinti che Platone abbia ragione al riguardo. Molti, infatti, ritengono che, in particolari circostanze, si manifestino situazioni nelle quali ci sarebbe bisogno di un controllore dei controllori. 

Si tratta di situazioni caratterizzate dal cosiddetto “problema del free-riding di secondo grado”. Che cosa vuol dire, esattamente? Abbiamo visto nelle scorse settimane che la nostra vita in comune, in campo civile, politico ed economico, è caratterizzata dalla presenza di innumerevoli “dilemmi sociali”: situazioni nelle quali l’interesse individuale confligge con l’interesse collettivo.

Sarebbe meglio che tutte le nazioni riducessero le emissioni di gas-serra nell’atmosfera, ma se una sa che tutte le altre lo faranno, avrà un incentivo a non farlo, per poter godere, in questo modo, dei benefici del contrasto al riscaldamento globale senza, al contempo, sostenerne i costi. Nel piccolo, se tutti pagano il biglietto dell’autobus, il trasporto pubblico potrà continuare ad essere finanziato ed io avrò tutto l’interesse a non pagare il biglietto e fare, così, il free-rider.

Questi comportamenti opportunistici hanno effetti devastanti per la cooperazione sociale perché a nessuno piace fare la figura dell’allocco, di quello che paga per tutti, furbetti compresi. E allora il free-riding diventa contagioso e tende ad erodere alla base il cemento della società, facendo sfumare quei benefici che l’azione cooperativa potrebbe portare a tutti, free-rider compresi. Le regole che governano questo genere di situazioni sono onnipresenti all’interno di ogni società umana e includono sia norme formali che norme sociali.

Se la tua fabbrica inquina puoi esser multato dall’autorità preposta, ma anche punito informalmente dai consumatori che possono decidere di boicottare i tuoi prodotti.

Analogamente se i tuoi comportamenti sono sostenibili e virtuosi dal punto di vista ambientale e sociale, per esempio, potresti essere premiato dai consumatori e dagli investitori che preferiranno le tue produzioni a quelle dei concorrenti meno sensibili. Si chiama “voto col portafoglio”.

Il movimento “Slotmob”, nato qualche anno fa in Sardegna, premia, organizzando delle grandi colazioni o degli aperitivi collettivi, quei bar e quei locali che hanno rinunciato, per ragioni etiche, all’installazione di slot machine e alla vendita di altri prodotti legati all’industria dell’azzardo. Questi esercizi, allo stesso tempo, possono ricevere, in molti comuni italiani, delle agevolazioni fiscali. Regole informali e regole formali che interagiscono per promuovere comportamenti cooperativi anche in situazioni nelle quali la tentazione del free-riding è molto forte.

Abbiamo visto le settimane scorse come molti esperimenti di laboratorio mostrano ormai in maniera inequivoca che la possibilità di punire in maniera costosa i trasgressori delle norme di cooperazione, per esempio nella contribuzione alla produzione volontaria di un bene pubblico, faccia aumentare significativamente il livello della cooperazione stessa. Questo è un risultato molto interessante non solo perché mostra l’efficacia di un sistema sanzionatorio decentralizzato nel quale non occorre creare una infrastruttura di controllo e amministrazione della pena, ma anche perché mette in luce la nostra “naturale” propensione a punire chi si comporta in maniera ingiusta, chi viola gli standard di comportamento della comunità, chi cerca di arraffare benefici senza essere disposto a fare la propria parte per produrli.

Quest’ultimo fatto è tutt’altro che scontato. Immaginate di essere in spiaggia e di vedere un turista incivile che, dopo aver fumato una sigaretta, sotterra con nonchalanche il mozzicone sotto la sabbia. Intorno a lui ci sono dieci persone. Tutt’e dieci sono convinte che l’incivile andrebbe punito, anche solo con un’espressione di biasimo e di disapprovazione. Ma chi dovrebbe farlo? Chi dovrebbe prendere l’iniziativa ed esprimere riprovazione per ciò a cui ha appena assistito? L’ottimo sarebbe che lo facessero tutti e dieci insieme. Ma siccome tale azione è costosa – si rischia per esempio di essere malamente apostrofati dal turista incivile – allora, si può pensare, “che lo facciano gli altri nove, perché dovrai farlo proprio io?”. Ma se anche gli altri nove astanti dovessero fare lo stesso tipo di ragionamento, alla fine l’incivile rimarrebbe impunito.

Così come tenere la spiaggia pulita rappresenta un problema di cooperazione, anche punire chi la sporca rappresenta, analogamente, un problema di cooperazione di grado superiore. Ecco che torna allora la questione di chi controlla i controllori.

Chi fa in modo che i potenziali punitori puniscano effettivamente quando l’interesse individuale diverge da quello collettivo? Questa idea della punizione come bene pubblico deriva dalle tradizionali assunzioni di razionalità e di comportamento autointeressato che gli economisti utilizzano per descrivere, in prima approssimazione, i processi decisionali umani. Ma per nostra fortuna le persone reali sono in genere meno razionali di quanto si assuma e, soprattutto, meno autointeressate, di come le si voglia dipingere.

Molti studi neuroscientifici, a riguardo, hanno mostrato che la decisione di punire chi trasgredisce le regole e chi si comporta in maniera ingiusta, scaturisce non tanto da un calcolo razionale costi-benefici, quanto da una reazione profonda di disgusto e di rabbia che si genera nelle regioni sottocorticali del nostro cervello, le regioni filogeneticamente più antiche. È questo meccanismo che, molto spesso, ci spinge all’azione davanti all’incivile che inquina la spiaggia anche se questo comporta sostenere un costo personale.

Quindi potremmo dire che i custodi, in questo senso, sono principalmente custodi di sé stessi. Chiarito questo primo punto se ne pongono altri due di notevole interesse: “quanto dev’essere severa la punizione?” e “chi dovrebbe punire?”. Detto in altri termini, esistono, cioè, delle norme che regolano il funzionamento delle altre norme? E se sì, tali norme di secondo grado variano al variare di chi sta applicando le norme di primo grado?

Su questi due punti le ricerche non sono ancora molte ma qualche dato interessante è già emerso e la risposta a entrambe le domande sembra essere positiva. Le norme che indicano come applicare le norme, in particolare, sembrano avere principalmente un valore “restrittivo” e non tanto “prescrittivo”. Questo vuol dire che quello che le norme sociali ci indicano di fare nel momento in cui sperimentiamo un’ingiustizia o una violazione degli standard di condotta condivisi, non è tanto che dobbiamo reagire a tali situazioni, ma piuttosto come dobbiamo reagire.

Che si debbano punire i trasgressori o premiare gli altruisti ce l’abbiamo chiaro dentro, per cui non abbiamo bisogno di norme prescrittive che ci spingano a farlo, mentre quanto dobbiamo punire o premiare, questo è meno chiaro e per questo abbiamo sviluppato delle norme di natura restrittiva. Una norma restrittiva è come una sorta di divieto all’eccesso di legittima difesa. Se è giusto punire un free rider che fa l’opportunista e il parassita grazie al lavoro degli altri, allo stesso tempo, non è giusto che questo venga punito troppo severamente, in maniera sproporzionata alla sua colpa.

È questo l’ambito di azione delle norme restrittive. L’importanza di queste norme è fondamentale per almeno due ragioni: la prima è che chi punisce eccessivamente spreca inutilmente risorse e quindi riduce il benessere della comunità; un comportamento da scoraggiare, quindi. Molti studi mostrano, infatti, che chi eccede nella punizione viene visto con sospetto dagli altri membri del gruppo. La seconda ragione è che una comunità funzionale deve mirare a rendere cooperativi i free-rider, a riabilitarli, per così dire, e ad includerli, perché in questo modo tutti potranno trarre vantaggio dalla presenza di un nuovo membro capace di contribuire al bene pubblico.

Ma chi riceve una punizione eccessiva e ingiusta, difficilmente riacquista o matura la determinazione a cooperare con chi lo ha sanzionato in maniera troppo severa. Forse John Maynard Keynes aveva in mente qualcosa di simile quando si oppose tenacemente all’umiliazione e alle fortissime sanzioni cui il Trattato di Versailles condannò la Germania sconfitta dopo la Prima Guerra Mondiale (Le conseguenze economiche della pace. Adelphi, 2007).

La seconda questione di una certa rilevanza riguarda l’identità del “punitore”. Ci sono situazioni nelle quali le identità sono indistinguibili – nell’esempio della spiaggia, tutti e dieci gli astanti stavano esattamente sullo stesso piano – ma in altri casi le identità e i ruoli sono differenti e allora le norme di secondo grado ci aiutano a gestire l’uso legittimo della punizione. Se un ragazzino si comporta in maniera maleducata davanti a un gruppo di adulti è giusto che venga redarguito? Certamente sì se sono i genitori a farlo, mentre è più strano che sia un altro adulto a prendersi l’incarico. Allo stesso modo nell’ambito di una organizzazione gerarchica è più legittimo ed efficace che sia un “superiore” – insegnante, responsabile, anziano, esperto - a segnalare la violazione che non un pari grado – un compagno, un collega o un giovane, o un inesperto.

Questo ci insegnano le norme restrittive. Norme che troviamo in azione in molti paesi del mondo e in culture di matrice molto differente (“Regulating the Regulation: Norms about Punishment” Trimling, P., e Eriksson Eriksson, K., in Van Lange, P. et al, Reward and Punishment in Social Dilemmas, Oxford University Press 2014).

Imparare a punire è un’attività complicata. Bisogna capire “chi”, “quando” e “quanto”. E per imparare bisogna osservare gli altri che sbagliano o sbagliare noi stessi in prima persona. Ma una società cooperativa è una società in cui tali punizioni sono rare e così sono rare anche le occasioni di apprendimento. Paradossalmente, quindi, in una società ben ordinata il rischio di punire male e troppo è maggiore di quello che si verifica in una società poco cooperativa e poco coesa che invece offre maggiori opportunità di apprendimento. Assistiamo così ad una continua e inesausta sfida al mantenimento di un equilibrio dinamico tanto precario e labile quanto necessario.

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