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Cosa fareste potendo investire 10 euro in un bene pubblico?

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 15/05/2022

I beni pubblici e i beni comuni, simili per molti versi tra loro anche se i primi non si consumano con l'uso mentre i secondi invece sì, sono, come abbiamo visto varie volte, dei beni fragili. I beni pubblici, infatti, sono soggetti alla logica del free-rider, di coloro che ne vogliono godere i benefici senza doverne sopportare il costo di produzione; l'espressione “free-rider” fa riferimento a coloro che usano i mezzi pubblici senza pagare il biglietto.

Gli evasori fiscali che usufruiscono gratuitamente della sanità pubblica, mandano a scuola i loro figli, possono vivere sicuri protetti dai corpi di polizia e dai vigli del fuoco e possono fare passeggiate in parchi puliti e curati, sono l'esempio classico di free-rider.

Un banco di prova per la cooperazione umana

La presenza di questi free-rider rende complicata la produzione volontaria dei beni pubblici che, infatti, vengono di solito prodotti dallo Stato. Un inciso precisino: i beni pubblici non sono pubblici perché vengono prodotti dal settore pubblico, ma vengono prodotti dal settore pubblico, dallo Stato, perché hanno la natura di beni pubblici, sono, cioè, non-escludibili e non-rivali. Per i beni comuni che, invece, sono non-escludibili ma rivali, cioè si consumano con l'uso, il discorso è, per molti versi, analogo. Mentre i beni pubblici, a causa della logica del free-riding, non vengono prodotti volontariamente in quantità sufficiente, i beni comuni, simmetricamente, vengono consumati eccessivamente, fino al limite della loro completa distruzione. Si capisce, dunque, come il caso della produzione volontaria di un bene pubblico o della tutela collettiva di un bene comune possano rappresentare un banco di prova naturale per la cooperazione umana. Per questa ragione la simulazione del processo di produzione volontaria di un bene pubblico, il cosiddetto public good game, è stato adottato dagli economisti sperimentali come lo strumento principale per lo studio della cooperazione.

La tentazione del free-riding

La situazione è molto semplice. Immaginate di avere 10 euro e di poterne investire una parte, niente, oppure tutti nella produzione del bene pubblico. Anche gli altri membri del vostro gruppo sono davanti alla stessa scelta. Il bene pubblico sarà equivalente alla somma di tutte le contribuzioni individuali. Maggiore l'investimento individuale, quindi, maggiore la dimensione della “torta” che verrà poi spartita in parti uguali tra tutti i membri del gruppo.

La cosa migliore sarebbe dunque investire tutti i 10 euro. E qui interviene la tentazione del free-riding. Se, infatti, tutti investono ma io no, avrò comunque la possibilità di godere di una “fetta” della “torta” cucinata dagli altri, senza, però, aver dovuto pagare per gli ingredienti. Se il bene pubblico viene prodotto, i free-rider avranno solo benefici e nessun costo. Naturalmente questo vostro ragionamento lo faranno anche tutti gli altri membri del gruppo e, complessivamente, questo porterà al risultato che nessuno investirà niente nel bene pubblico, nella speranza che lo facciano gli altri. E alla fine il bene pubblico non verrà prodotto.

Queste sono le previsioni teoriche che derivano dall'assunzione di avere a che fare con soggetti autointeressati e razionali. Eppure, quando proviamo a testare queste previsioni in laboratorio con soggetti reali, in condizioni di anonimato e con soldi veri, le cose che osserviamo sono, almeno inizialmente, differenti. Immaginate di dover giocare questo public good game per dieci volte. La teoria suggerisce un livello di contribuzione pari a zero per ogni round del gioco. Invece quello che invariabilmente si osserva – sono stati condotti centinaia di esperimenti con lo stesso protocollo e i risultati sono sempre stati replicati – è che i partecipanti nei primi round iniziano cooperando. Investono, cioè, nella produzione del bene pubblico una parte rilevante della loro dotazione iniziale. Ma poi, round dopo round, il livello medio di contribuzione si abbassa fino a raggiungere il livello previsto dalla teoria: zero.

L’apprendimento dei “topolini”

La tendenza spontanea e naturale che emerge nei primi round è quella alla cooperazione, ma poi interviene qualcosa che sembra scoraggiare tale cooperazione e convincere chi inizialmente aveva cooperato a smettere. Naturalmente gli economisti hanno fatto varie ipotesi per cercare di spiegare questo strano modello di comportamento collettivo. James Andreoni, dell'Università della California a San Diego, per esempio, ha ipotizzato che il modello di decadimento della volontà di cooperazione non sia altro che il risultato di un processo di apprendimento: i partecipanti agli esperimenti si trovano davanti ad una situazione nuova, in un ambiente strano e inusuale e, inizialmente, sperimentano. Come topolini che esplorano le gabbiette dove vengono posti dagli sperimentatori. In questo modo, per tentativi ed errori, i partecipanti capiscono col tempo qual è la strategia razionale e per questo, lentamente, il loro comportamento finisce per convergere verso quello previsto dalla teoria della scelta razionale.

In un esperimento diventato classico Andreoni ha testato questa “ipotesi dell'apprendimento” in questo modo: ha fatto giocare il gioco dei beni pubblici per dieci volte e poi, alla fine del decimo e ultimo round, ha fatto partire una nuova, inattesa, serie di altri dieci round. L'idea di Andreoni era quella secondo cui una volta appresa la scelta migliore – il free-riding - nei primi dieci round, nella seconda serie di round i partecipanti non avrebbero più avuto bisogno di sperimentare per tentativi ed errori e avrebbero utilizzato l'esperienza fatta nei primi dieci round per scegliere razionalmente a partire dal primo round della seconda serie nella quale, dunque, non si dovrebbe osservare il fenomeno del decadimento.

I dati di Andreoni, però, mostrano tutt'altro, mettono in luce il cosiddetto “re-start effect”: dopo aver iniziato cooperando nei primi round della prima serie e aver ridotto la cooperazione al procedere dei round, con la ripartenza di una nuova sequenza di round i soggetti non continuano a fare i free-rider, ma riprendono a cooperare come nei primi round della prima serie.

L’ipotesi della strategia

Lo strano comportamento che si osserva di solito nella produzione volontaria dei beni pubblici non può essere considerato, dunque, solamente come il risultato di un processo di apprendimento. Ma Andreoni non si arrende e formula anche una seconda, più complessa, spiegazione, la cosiddetta “ipotesi della strategia”. Immaginiamo che non tutti i giocatori siano perfettamente razionali, ma alcuni lo siano più di altri. Se quelli più razionali iniziassero da subito a fare i free-rider “educherebbero”, in qualche modo, anche quelli meno razionali, spingendoli verso la strategia individualmente ottimale, ma, così facendo, i soggetti razionali perderebbero la possibilità di approfittarsi del bene pubblico prodotto dalla cooperazione dei soggetti meno razionali. Per questa ragione diventa razionale fingersi inizialmente irrazionali per poter lucrare poi, davvero, sull'irrazionalità degli altri.

Questo tipo di ragionamento, dunque, prevederebbe un elevato livello di cooperazione iniziale ed un successivo decadimento, quando i razionali, iniziano ad approfittarsi degli irrazionali. Andreoni decide di mettere alla prova anche questa seconda ipotesi. Per questo utilizza una variante del gioco nel quale, round dopo round, i membri del gruppo vengono riassortiti. Nella versione tradizionale del gioco, detta “partner”, i membri del gruppo rimangono gli stessi per tutti i dieci round, mentre nella nuova versione, detta “stranger”, in ognuno dei dieci round i soggetti sanno che giocheranno con partecipanti differenti. Mentre l'“ipotesi della strategia” si applica alla versione “partner” non avrebbe nessun senso in quella “stranger”. In questo secondo caso, quindi, si dovrebbe osservare un comportamento differente; cosa che immancabilmente non si verifica.

Cooperatori condizionali vs opportunisti incalliti

Entrambe le ipotesi testate da Andreoni si rivelano incapaci di spiegare il decadimento della cooperazione nella produzione dei beni pubblici (“Why free ride? Strategies and learning in public goods experiments”. Journal of Public Economics 37, pp. 291‒304, 1988).

Una terza ipotesi sembra aver avuto miglior fortuna, l'ipotesi della “cooperazione condizionale”. Questa idea parte dal presupposto che esista eterogeneità nelle preferenze degli individui: alcuni di noi sono disposti a cooperare e ad investire nel bene pubblico se anche gli altri lo fanno, mentre altri non lo farebbero neanche in caso in cui tutti gli altri lo facessero; sono i free-riders duri e puri, gli opportunisti incalliti. Interagendo tra di loro queste due tipologie di soggetti produrrebbero esattamente il modello di decadimento nella contribuzione che si osserva negli esperimenti. Un mix di cooperatori condizionali ed opportunisti autointeressati produrrebbe un livello iniziale di cooperazione pari al 40-60% della dotazione iniziale. Con il susseguirsi dei round, però, i cooperatori condizionali si rendono conto che gli altri membri dei loro gruppi sono degli opportunisti e, per evitare di farsi sfruttare da questi, smettono di cooperare producendo il progressivo decadimento degli investimenti.

I primi a testare sperimentalmente questa ipotesi sono stati Urs Fischbacher, Simon Gächter e Ernst Fehr utilizzando una versione “one shot” del public good game.

Nella prima fase del gioco ai partecipanti viene chiesto di investire la somma che preferiscono nella produzione del bene pubblico. Nella seconda fase, invece, gli viene chiesto di compilare una tabella nella quale, per ogni possibile contributo degli altri soggetti, devono indicare la loro scelta di contribuzione. Ciò significa che i partecipanti devono prendere una decisione per ogni possibile contributo medio degli altri. Osservando congiuntamente le decisioni della prima fase con quelle della seconda fase è possibile classificare ogni soggetto in diverse tipologie in base alla loro disponibilità a contribuire. Un free-rider incallito, per esempio, investirà sempre zero indipendentemente dall'investimento medio degli altri soggetti; un altruista puro, invece, investirà sempre un ammontare positivo anche se gli altri investono poco o niente; infine, un “cooperatore condizionale” farà variare la propria contribuzione in relazione a quella degli altri.

I dati che emergono dall'esperimento di Fischbacher, Gächter e Fehr individuano due categorie principali di soggetti: i cooperatori condizionali e gli egoisti.

I cooperatori condizionali rappresentano circa il 50% di tutti i partecipanti, mentre il 30% circa viene classificato come free-rider. Il restante 20% non sembra seguire un modello coerente di comportamento (“Are people conditionally cooperative? Evidence from a public goods experiment”. Economics Letters 7, pp. 397–404, 2001).

Il ruolo della cooperazione condizionale

Pur essendo la categoria più numerosa quella dei cooperatori condizionali, la loro interazione con i free-rider rende la cooperazione fragile. Sono questi ultimi, infatti, a venire imitati dai primi e non viceversa. Progressivamente questo determina un'erosione della disponibilità alla cooperazione e la scomparsa del bene pubblico.

L'ipotesi della cooperazione condizionale apre scenari molto interessanti, connessi, per esempio, all'utilizzo strategico dell'informazione. Se vogliamo far aumentare la cooperazione e l'altruismo dovremmo mettere in luce gli esempi di cooperazione e di altruismo, piuttosto che lamentarci del fatto che non siano mai abbastanza.

In presenza di cooperatori condizionali sottolineare che dieci italiani su cento non pagano le tasse non è equivalente a dire che novanta su cento le pagano. Nel primo caso l'evasione aumenterà, nel secondo, invece, verrà scoraggiata. Durante le maratone televisive per la raccolta di fondi per la ricerca scientifica, viene spesso mostrata la cifra totale raccolta fin quel momento e non viene mai detto, «donate di più perché abbiamo raccolto ancora troppo poco».

Il primo approccio favorisce – secondo la logica della cooperazione condizionale – le donazioni, mentre il secondo le scoraggerebbe.

Intuitivamente questo lo hanno capito anche quegli artisti di strada che non lasciano mai vuoto il loro cappello per le offerte. Qualche moneta o qualche banconota ben visibile segnala ai cooperatori condizionali cos'hanno fatto gli altri, incoraggiandoli a fare lo stresso.

Se vogliono promuovere la cooperazione e gli orientamenti pro-sociali, le nostre organizzazioni pubbliche e private devono imparare ad utilizzare la logica della cooperazione condizionale, piuttosto che fare ricorso esclusivo alla leva della competizione. Lo stesso vale per le istituzioni politiche e per i comunicatori di professione. La presenza di cooperatori condizionali rende fondamentali, come abbiamo visto, i segnali relativi al comportamento degli altri.

La sovraesposizione mediatica di minoranze esigue – terrapiattisti, complottisti, antivaccinisti e negazionisti vari – non solo non fa un buon servizio alla causa della verità, ma distorce le percezioni delle persone rispetto all'incidenza di questi fenomeni nella società, modificandone il comportamento. E questo vale sia per le notizie e i comunicatori, sia per i legislatori, in virtù del cosiddetto “valore espressivo delle leggi”. In tutti questi casi si costruisce, implicitamente o esplicitamente, una narrazione prevalente che crea aspettative sul comportamento atteso di chi ci circonda e, per questa, viene influenzato il nostro stesso comportamento, la nostra disponibilità ad essere membri cooperativi nell'ambito delle nostre comunità.

Quando Giacinto Dragonetti nel suo Delle Virtù e Dei Premi (1776) si lamentava del fatto che “Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù”, forse aveva in mente qualcosa del genere. Forse.

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