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Altruismo ben temperato e razionalità del “noi”

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 27/03/2022

Nelle sue Tanner Lectures tenute all'Università di Stanford nell'inverno del 2008 lo psicologo Michael Tomasello enuncia e difende un'ipotesi a cui attribuisce il nome di “Ipotesi Spelke prima, Dweck poi” dal nome di due psicologhe, Elizabeth Spelke di Harvard e Carol Dweck della Stanford University. La prima parte dell'ipotesi – quella Spelke – fa riferimento all'innata spontaneità dei comportamenti altruistici che osserviamo nei bambini anche piccolissimi. Comportamenti che principalmente assumono la forma del prestare aiuto a chi ne ha bisogno, del fornire informazioni e del condividere risorse in comune.

“I bambini si dimostrano collaborativi e propensi all'aiuto in molte situazioni, anche se non in tutte, ovviamente. E non si tratta di un comportamento appreso dagli adulti, ma qualcosa di assolutamente spontaneo” scrive Tomasello. Nel corso dell'ontogenesi, però, - continua - la tendenza alla cooperazione piuttosto indiscriminata dei bambini viene mediata da fattori come il giudizio sull'eventuale reciprocità e la preoccupazione per come si verrà giudicati dagli altri membri del gruppo, fondamentali nell'evoluzione della cooperazione naturale tra esseri umani.

A questo punto i piccoli iniziano a interiorizzare molte norme sociali specifiche della loro cultura che prescrivono come vanno fatte le cose, come un individuo le dovrebbe fare se vuole appartenere al gruppo. E questa è la seconda parte dell'ipotesi, quella “Dweck”). Dell'evidenza a sostegno della prima parte dell'ipotesi abbiamo ampiamente discusso nel Mind the Economy della settimana scorsa. Qui ci occuperemo, invece, della seconda parte dell'ipotesi, dell'effetto di mediazione, cioè, che il processo di socializzazione opera nei confronti delle nostre innate tendenze altruistiche.

Tutti noi abbiamo fatto esperienze differenti durante il processo di sviluppo, siamo stati sottoposti ad influenze diverse, culturali, sociali, familiari e queste, naturalmente, hanno lasciato un segno distintivo su ciò che poi siamo diventati da adulti. Queste influenze possono essere distinte in due diverse tipologie. Innanzitutto abbiamo quelle che derivano dall'esperienza diretta che i bambini hanno dell'ambiente sociale nel quale operano. Tutti i feedback che ricevono dall'interazione con gli altri e che andranno a rinforzare certe propensioni e a scoraggiarne altre in virtù delle conseguenze che queste producono.

I piccoli imparano che dimostrarsi cooperativi e pronti ad aiutare gli altri nella maggior parte delle situazioni porta a ricevere in cambio cooperazione e offerte d'aiuto; perciò, sono incoraggiati a imboccare questa strada” afferma Tomasello. Ad un certo punto, però, iniziano anche a sperimentare che l'altruismo incondizionato può anche indurre gli altri ad approfittarsene e questo porterà i bambini ad un cauto sospetto. Per questa ragione in una successiva fase dello sviluppo, intorno ai tre anni, i bambini imparano a diventare più selettivi, in particolare iniziano a tener conto delle caratteristiche delle persone con cui interagiscono. In questa fase inizia ad apparire una certa sensibilità al principio di reciprocità diretta e indiretta. I bambini, cioè, si dimostrano più propensi ad aiutare e a condividere se il destinatario si era dimostrato in precedenza gentile con loro o aveva prestato aiuto a qualcun altro.

La seconda tipologia di influenze che esercitano un impatto in questa fase del processo di sviluppo del bambino sono quelle legate all'internalizzazione delle norme del gruppo di appartenenza. Un'influenza che, a questo punto, diventa tutta di natura culturale. I veicoli principali di conoscenza, in questa fase, diventano l'emulazione, la comunicazione e l'istruzione esplicita e le figure di riferimento sono coloro che altrove ho definito “vecchi saggi e gentili” (Ipersociali. Le radici, le forme e le trappole della vita in comune. Ecra, 2022).

Attraverso l'emulazione dei comportamenti di persone di grande esperienza e degne di ammirazione (vecchi e saggi) e, al contempo, disponibili alla condivisione di quanto appreso (gentili), i bambini acquisiscono importanti conoscenze su fatti e fenomeni anche senza averne fatto esperienza diretta. Queste stesse figure, poi, sono quelle che rafforzano l'adesione alle norme sociali - sii gentile, aiuta gli altri, non mentire – attraverso l'esercizio della loro approvazione che i bambini ricevono ogni qual volta si conformano a questi precetti. È in questo momento che iniziamo a costruire quel bene prezioso che ognuno di noi cerca di coltivare e difendere e che chiamiamo “reputazione”.

Questa dimensione culturale dell'apprendimento è ciò che maggiormente differenzia il processo di sviluppo degli esseri umani da quello dei nostri cugini primati. Abbiamo parlato varie volte degli esperimenti eseguiti utilizzando il cosiddetto ultimatum game: ad un giocatore (proposer) viene attribuita una certa dotazione monetaria, per esempio dieci euro e gli viene chiesto come vuole suddividerla con un secondo giocatore (receiver); può inviargli qualunque somma compresa tra zero e dieci. Il receiver dovrà, quindi, decidere se accettare o meno l'offerta. Se l'accetta entrambi andranno a casa con la somma che ne deriva ma se il receiver, invece, rifiuta entrambi otterranno zero. Alcuni esperimenti condotti usando l'ultimatum game con degli scimpanzé, con degli acini d'uva al posto dei soldi, hanno evidenziato che gli scimpanzé si comportano in modo razionale, così come il modello economico standard prevede: i receiver accettano qualunque offerta, anche le più basse e, per questo, i proposer, in genere offrono il meno possibile (“K. Jensen, J. Call e M. Tomasello. “Chimpanzees Are Rational Maximizers in an Ultimatum Game”. Science, 318 (5847), 2007, pp. 107-09).

Molto differente è il comportamento che gli esseri umani mostrano nelle medesime circostanze. Centinaia di esperimenti condotti in tutto il mondo hanno evidenziato la sistematica tendenza a rifiutare le offerte troppo basse, quelle, in genere inferiori al 30-40% della dotazione iniziale. Per questa ragione i proposer nella stragrande maggioranza dei casi offrono la metà della loro dotazione, perché solo in questo modo possono minimizzare il rischio di un rifiuto che li farebbe andare a casa con un pungo di mosche. Quali sono le ragioni di questa differenza? Secondo molti studiosi la differenza ha origine proprio nel processo di socializzazione che attiva l'internalizzazione di norme di equità. Questo processo di apprendimento culturale è attivo negli esseri umani e non negli scimpanzé.

Sono due le tipologie di norme sociali che vengono apprese in questo modo: innanzitutto le norme morali e di cooperazione e, in secondo luogo, quelle di conformità. Le prime tendenzialmente prescrivono comportamenti cooperativi e di aiuto e proibiscono, al contempo, i comportamenti che fanno del male a qualcun altro; l'adesione alle norme di conformità, invece, nasce dalla comprensione di ciò che gli altri si aspettano da noi in determinate circostanze: alzarsi in piedi quando entra la maestra, dire “grazie” quando si riceve un dono, vestirsi eleganti per andare ad una festa importante, etc.

Da cosa traggono forza queste norme? Dal fatto che siamo, fin dalla primissima età, indotti a rispettarle. La prima ragione è l'autorità. Spesso, soprattutto quando siamo piccoli, facciamo ciò che ci viene detto di fare soprattutto se a dirci cosa fare sono quei “vecchi saggi e gentili” cui naturalmente attribuiamo autorevolezza e legittimazione. Ma poi impariamo a rispettare le norme anche perché ci rendiamo conto che conviene farlo, se anche gli altri lo fanno. In questo senso è l'esperienza della reciprocità a rafforzare la nostra adesione. Ma non solo. I bambini già in età precoce non solo scelgono di conformarsi alle norme, ma si adoperano affinché anche gli altri le rispettino.

Questo ulteriore comportamento è difficile da spiegare sulla base della sensibilità all'autorità o alla reciprocità. Sembrerebbe animato, piuttosto, dalla nostra tendenza alla punizione altruistica. Una vera e propria forma di altruismo che si sostanzia nel punire anche in maniera costosa – da qui il termine e la valenza altruistica - chi trasgredisce il comportamento atteso, anche quando sappiamo che non trarremo nessun beneficio futuro da questa punizione. Mi sacrifico, punendo il trasgressore, perché so che tutto il gruppo ne trarrà beneficio e soprattutto perché il rischio stesso di punizione può esercitare un effetto deterrente tale da indurre al rispetto delle norme che renderà future punizioni superflue.

Questa prospettiva implica la possibilità che fin da piccolissimi i bambini abbiano accesso ad una forma di razionalità plurale, quella che alcuni come il filosofo Martin Hollis, l'economista Robert Sugden e lo stesso Tomasello, definiscono we-rationality, razionalità del noi. La razionalità del noi assume l'interdipendenza strategica e una sorta di intenzionalità condivisa. Se voglio vincere una partita di tennis, “io” devo cercare di far più punti possibile. Se voglio vincere una partita di calcio, “la mia squadra” deve segnare più gol dell'altra squadra. Questo significa che “io” dovrò adoperarmi affinché la mia squadra faccia più gol dell'altra squadra, non necessariamente cercando di segnare in prima persona, ma magari evitando che l'altra squadra segni, perché gioco come difensore o portiere. Le azioni suggerite da una razionalità individuale o da una razionalità del “noi”, potrebbero essere, dunque, anche molto differenti.

L'“Ipotesi Spelke prima, Dweck poi”, dunque, sembra essere rinforzata da un abbondante corpus di evidenza empirica. Nasciamo con una naturale predisposizione all'aiuto spontaneo, raffiniamo, poi, questa capacità con l'apprendimento di norme sociali di cooperazione e di imitazione e, in terzo luogo, ci adoperiamo attivamente affinché anche gli altri rispettino tali norme spinti da una forma di razionalità che travalica i limiti della nostra soggettività individuale. Questa prospettiva porta con sé interessanti implicazioni operative. Da un punto di vista educativo, per esempio, il tentativo di rinforzare attraverso premi e punizioni l'adesione a tali norme può rivelarsi spesso controproducente, perché mette in discussioni le ragioni più vere e profonde che sostengono l'adesione cercando di sostituirle con motivazioni transitorie puramente estrinseche e strumentali. Al contrario, numerosi studi sembrano supportare il modello del cosiddetto “genitore induttivo”, secondo il quale l'apprendimento viene favorito dalla comunicazione dagli adulti ai bambini degli effetti delle loro azioni sugli altri.

Questo modello si mostra particolarmente efficace nel facilitare l'interiorizzazione delle norme sociali. Secondo Tomasello: “Questo stile genitoriale funziona meglio perché parte dal presupposto che il bambino sia già propenso a compiere una scelta cooperativa quando gli sono chiari gli effetti delle sue azioni sugli altri e sul funzionamento del gruppo. I bambini sono altruistici per natura e si tratta di una predisposizione che gli adulti tentano di alimentare (visto che i piccoli sono anche naturalmente egoisti)”. Una posizione che riecheggia quella di Elinor Ostrom, premio Nobel 2009 per l'economia. La Ostrom mette in luce quelle che sono le implicazioni organizzative ed istituzionali dell'“Ipotesi Spelke prima, Dweck poi”.

Partendo dal presupposto di avere a che fare con agenti autointeressati e dotati di una razionalità di stampo individualistico, la Ostrom rileva come “Progettare istituzioni capaci di forzare o indirizzare individui puramente autointeressati verso l'ottenimento di esiti ottimali è stata la preoccupazione principale degli analisti politici e dei governi per gran parte del secolo scorso”. E critica questa linea d'azione perché, se invece assumessimo una visione di agente più realistica, basata su un naturale altruismo temperato dall'esperienza e dalle norme sociali, allora l'obiettivo fondamentale delle politiche pubbliche e della progettazione organizzativa dovrebbe essere quello di “sviluppare istituzioni capaci di far venir fuori la parte migliore di ogni essere umano”. Una constatazione, ma soprattutto un auspicio quanto mai urgente.

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