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Oltre l’Homo economicus. Perché ci serve una teoria migliore per sviluppare politiche più efficaci?

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 06/02/2022

La teoria economica «ha studiato una moltitudine di meccanismi che possono essere utilizzati per indurre i lavoratori ad agire nell'interesse dei loro datori di lavoro. Questi includono il cottimo, le opzioni, i bonus discrezionali, la partecipazione ai profitti, i salari di efficienza, le compensazioni differite, e molti altri». Prendergast, C., «The provision of incentives in firms». Journal of Economic Literature 37, pp. 7–63, 1999, p. 7). «Spingere i lavoratori ad agire nell'interesse dei loro datori di lavoro», scrive l'economista di Chicago Canice Prendergast a proposito degli incentivi.

Abbiamo già affrontato altre volte il tema dell'azzardo morale nell'ambito di una relazione tra lavoratore e datore di lavoro e di come si possano usare i cosiddetti contratti incentivanti per tentare di allineare interessi altrimenti conflittuali. Abbiamo anche visto come la presenza di asimmetria informativa e il rischio di azzardo morale producano problemi rilevanti, in particolare, nella forma di una inefficiente condivisione del rischio tra lavoratore e datore di lavoro.

Quella dei contratti incentivanti è dunque una soluzione di «second best», non la migliore possibile, certamente peggiore di quella che si potrebbe ottenere in assenza di asimmetria informativa. Questa soluzione, però, non è problematica solamente perché caratterizzata da inefficienze, ma perché molte volte non funziona. Perché, a volte, gli incentivi producono risultati contrari rispetto a quelli attesi; hanno dei costi nascosti, stravolgono le motivazioni individuali, hanno un impatto negativo sul carattere delle persone.

Se la teoria economica si fonda su premesse deboli

Tutti effetti non previsti dalla teoria eppure tangibili e rilevanti. Il problema nasce perché troppo spesso ancora la teoria economica si fonda su premesse deboli, su un'idea di agente ipersemplificata, su un'immagine di persona perfino caricaturale. Non sto affermando che le assunzioni di comportamento autointeressato e di razionalità che stanno al cuore della microeconomia moderna siano fattualmente errate. Questo è certo, ma non sarebbe, in sé, un problema.

Tutte le teorie scientifiche adottano modelli costruiti su assunzioni semplificatrici. Il premio Nobel Milton Friedman, nei suoi lavori metodologici, si spingeva fino ad affermare che una teoria fondata su assunzioni irrealistiche è perfino migliore di un'altra fondata su assunzioni più complesse e realistiche, perché la prima, al contrario della seconda, spiega molto partendo da poco. Il problema, dunque, non sono tanto le assunzioni, quanto le conclusioni e le implicazioni di queste assunzioni.

E' una posizione ben riassunta, nell'ambito della teoria principale-agente, da Robert Gibbons, quando scrive: «Una relazione di lavoro è anche una relazione sociale (…) una delle possibilità è che i modelli economici che ignorano gli aspetti psicologici e sociali possano essere delle descrizioni incomplete del funzionamento degli incentivi nelle organizzazioni. Una seconda, più allarmante possibilità, è che pratiche di management basate su tali modelli possano danneggiare (e perfino distruggere) realtà non economiche importanti come le motivazioni intrinseche e le relazioni sociali» (“Incentives in Organizations». Journal of Economic Perspectives, 12(4), pp. 115–132, 1998).

Cosa ci sta dicendo Gibbons? Non solo e non tanto che l'utilizzo di assunzioni irrealistiche come quella di comportamento autointeressato o di razionalità olimpica possano produrre descrizioni incomplete e fuorvianti. Questo non sarebbe, poi, un grosso problema. Ciò che aggiunge in seguito, invece, è una possibilità più allarmante e, cioè, il fatto che quando queste teorie vanno ad informare le policies organizzative, diventano, cioè, pratiche manageriali, allora possono operare in modo da trasformare la realtà sulla quale intervengono, producendo quei costi nascosti legati alla distruzione di realtà importanti come le motivazioni intrinseche e stravolgendo la stessa natura sociale delle relazioni lavorative.

L'economia dell'informazione si basa quasi del tutto sul modello standard di agente economico e trae da queste assunzioni gran parte delle sue conclusioni anche operative. L'utilizzo dei contratti incentivanti ne è un chiaro esempio. Conosciamo ormai molto della psicologia umana e delle sue conseguenze anche in ambito economico; l'economia comportamentale si occupa di questo da decenni ormai.

Il momento di ridiscutere gli agenti economici

Potrebbe essere giunto il momento, allora, di iniziare a discutere e a popolarizzare una visione diversa di agente economico, una nel quale le motivazioni sono plurali, la razionalità limitata, le emozioni giocano un ruolo cruciale e, soprattutto, la socialità e la relazionalità non sono dei dettagli posticci, ma caratteristiche ontologicamente definitorie anche degli agenti economici.

Proviamo a mettere da parte l'homo economicus, o gli «econs», come li definisce Richard Thaler e a far entrare in scena l'homo sapiens. Probabilmente capiremo meglio, tra le altre cose, anche il funzionamento degli incentivi e la natura delle relazioni lavorative, l'azzardo morale, l'opportunismo, ma anche la fiducia, l'affidabilità, la reciprocità e l'avversione per le disuguaglianze; tutti elementi che caratterizzano e definiscono le nostre relazioni sociali anche in ambito economico.

 Partiamo dall'assunzione di comportamento autointeressato. John Stuar Mill affermava, per esempio, che «L'economia politica si occupa dell'uomo come essere che desidera solamente il possesso della ricchezza materiale» (1836) e sulla stessa linea si trovava Francis Ysidro Edgeworth per il quale «Il principio primo dell'economia è quello secondo cui gli agenti sono mossi esclusivamente dal loro interesse personale» (1881). Più recentemente sembra che questa posizione si sia più radicalizzata.

Dennis Mueller, oggi professore emerito all'Università di Vienna in uno dei suoi importanti manuali afferma: «Il principio comportamentale fondamentale dell'economia è che gli esseri umani sono egoisti e massimizzatori razionali della loro utilità» (1989) e così arriviamo fino al Nobel Paul Milgrom che, nel testo di economia delle organizzazioni pubblicato assieme a John Roberts, scrive «Le persone sono fondamentalmente amorali, trasgrediscono le regole, ignorano gli accordi, utilizzano la frode, la manipolazione e l'inganno se trovano un vantaggio personale nel far ciò» (1992).

L’esempio della lotteria per raccontare il comportamento economico

Come si può notare si è passati da affermazioni sul modello idealtipico di agente economico ad affermazioni fattuali sulla stessa natura dell'uomo e non di un suo modello semplificato. È giusto chiedersi dunque quanto queste affermazioni descrivano realmente e accuratamente il comportamento umano anche in ambito economico. Partiamo con un esempio: immaginate che vi diano la possibilità di partecipare ad una lotteria che mette in palio un bel po' di denari. Dovete scegliere tra due biglietti.

I biglietti sono quasi del tutto identici e se dovessero risultare vincenti vi darebbero la possibilità di ottenere un premio di 400 euro. In questa strana lotteria si vince sempre in due, però, per cui se sceglieste il biglietto A fareste vincere anche un'altra persona, totalmente sconosciuta, che otterrebbe come voi la somma di 400 euro. Il biglietto B, invece, farebbe vincere a questo anonimo compagno di sorte, 300 euro. Che fareste, A o B? Qualche anno fa, assieme Luca Stanca, economista dell'Università di Milano-Bicocca abbiamo condotto un esperimento proprio su questo tipo di lotteria. I premi in palio erano veri e i partecipanti estratti da un campione rappresentativo di cittadini maggiorenni.

Cosa ci dovremmo aspettare, A o B? Se, come si assume di solito, i decisori sono razionali ed autointeressati, l'unico parametro che dovrebbe guidare questa scelta sono le sue conseguenze. In questo caso se scelgo A ottengo 400 euro e se scelgo B esattamente lo stesso. Per questo la previsione teorica punta all'indifferenza. Dei nostri 611 partecipanti avremmo dovuto osservarne circa una metà optare per A e l'altra metà optare per B. I dati però ci dicono altro.

Ci dicono, in particolare, che ben l'83 percento dei partecipanti preferisce il biglietto A, quello che non solo farebbe vincere 400 a me ma 400 anche ad un altro anonimo partecipante. Cosa c'è di sorprendente in questo risultato? Non molto, a dire il vero, a meno che non siate economisti. Se possono farlo gratuitamente, le persone preferiscono far guadagnare 100 euro in più anche ad un'altra persona che non conoscono e con la quale non avranno mai più niente a che spartire (Pelligra, V., Stanca, L. “To Give or Not To Give? Equity, Efficiency and Altruistic Behavior in an Artefactual Field Experiment”. The Journal of Socio-Economics 46, pp. 1-9, 2013).

L’instinto di rendere felici gli altri

«Per quanto [l'uomo] possa esser supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l'altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla». Scriveva così nel 1759, nella prima frase della prima pagina della sua «Teoria dei Sentimenti Morali», Adam Smith, il fondatore della moderna economia. Conosciamo molto, oggi, di questi «principii» della nostra natura che ci rendono necessaria l'altrui felicità. È una questione che nasce nel cervello, naturalmente, e sappiamo anche dove.

Bill Harbaugh è un neuroeconomista dell'Università dell'Oregon. Uno scienziato che utilizza gli strumenti delle neuroscienze per studiare i processi decisionali in ambito economico, ma a livello cerebrale. Qualche anno fa, assieme ai colleghi Ulrich Mayr e Daniel Burghart ha pensato bene di osservare, in tempo reale, quello che capitava nel cervello dei partecipanti al suo esperimento mentre venivano posti davanti ad una scelta simile a quella della nostra lotteria. In questo caso ciascun partecipante riceveva una certa dotazione di dollari che poteva decidere come spartire tra sé ed una organizzazione di beneficienza.

Poteva donare 0, 15, 30 o 45 dollari all'associazione con un costo personale variabile. Riceveva ogni volta delle offerte che doveva accettare o rifiutare e mentre questo avveniva il suo cervello veniva scansionato dentro una macchina per la risonanza magnetica funzionale capace di individuare l'attivazione delle diverse aree del cervello implicate nell'azione. I risultati, tra le altre cose, mettono in luce che nessuno si rifiuta di mandare $45 all'associazione quando questo può avvenire senza nessun costo per il soggetto.

Il 75% accetta di far arrivare $45 all'associazione anche se questo dovesse costargli 15 dei suoi $45. Una percentuale un po' più bassa si ottiene se il costo aumenta fino a $30. Infine, un terzo dei soggetti è disposto a mandare tutti i suoi soldi all'organizzazione di beneficenza senza nessun tornaconto personale. Questo risultato non è particolarmente sorprendente, è stato replicato migliaia di volte e rappresenta una ben nota regolarità nell'ambito dello studio delle cosiddette “preferenze sociali”.

La cosa, però, più interessante dello studio di Harbaugh e colleghi è ciò che avviene dentro la nostra scatola cranica, quando scegliamo in questo modo. Smith era convinto che l'altrui felicità ci fosse necessaria sebbene non ne ricavassimo alcunché «eccetto il piacere di constatarla». Quello che le scansioni di Harbaugh, invece, hanno messo in luce che quello di «constatarla« non è l'unico piacere che l'altrui felicità ci procura.

La libera scelta di donare

Quando, infatti, i soggetti sperimentali decidevano, liberamente, di donare i loro soldi nel loro cervello si attivavano alcune aree come il nucleus accumbens, l'insula e il nucleo caudato, tutte implicate generalmente nei circuiti che elaborano le ricompense. Gli autori mettono a confronto due possibili spiegazioni: quella legata all'idea di altruismo «puro» e quella che invece si rifà al concetto di altruismo «impuro». Nel primo caso si otterrebbe soddisfazione nell'osservare un incremento del benessere di un'altra persona, indipendentemente dalla causa, nel secondo caso, invece, ciò avverrebbe solo se siamo stati noi, attivamente, a produrre quell'incremento.

In questo caso la nostra buona azione sarebbe giustificata non solo dalla volontà di far star bene un'altra persona, ma anche da quella di sperimentare noi stessi un senso di benessere simile, ciò che gli americani chiamano warm glow. I risultati dello studio di Harbaugh sono coerenti con entrambe le spiegazioni. Infatti l'elaborazione della ricompensa neurale si verifica anche quando i soggetti vedono che l'organizzazione di beneficienza riceve denaro attraverso un meccanismo di tassazione e quindi non volontariamente, ma i dati mostrano anche che l'attivazione è ancora più forte, come previsto dall'altruismo “impuro”, quando, invece, la scelta di donare è volontaria e libera (Harbaugh, W., Mayr, U., Burghart, D. “Neural Responses to Taxation and Voluntary Giving Reveal Motives for Charitable Donations”. Science, 316 no. 5831 pp. 1622-1625, 2007). Gli autori concludevano in questo modo “Il fatto che i trasferimenti obbligatori a un'organizzazione di beneficenza suscitino attività in aree legate alla ricompensa suggerisce che anche la tassazione obbligatoria può produrre soddisfazione per i contribuenti”.

Lo studio, naturalmente, suscitò grande scalpore negli Stati Uniti dove, nella rappresentazione popolare, pagare le tasse non è proprio la più soddisfacente delle attività. E in Italia? Luca Zarri e Diego Lubian, economisti dell'Università di Verona, hanno pubblicato qualche anno fa uno studio nel quale mettono in relazione la tax morale - la motivazione intrinseca del contribuente a pagare le tasse - con il suo benessere soggettivo («Happiness and tax morale: An empirical analysis». Journal of Economic Behavior & Organization 80, September 2011, pp. 223-243). Anche in questo caso i risultati sono sorprendenti ma in linea con quanto trovato da Harbaugh e colleghi.

L’onesta gratifica di più dell’evasione

Concludono gli autori: «Il nostro risultato principale è che l'onestà fiscale genera un guadagno edonico più elevato rispetto all'evasione. Inoltre, fa luce sul noto puzzle of compliance, ovvero il fatto che molti individui pagano le tasse anche quando la sanzione prevista e la probabilità di un accertamento sono estremamente basse: la fedeltà fiscale appare meno sconcertante una volta compresi i suoi notevoli vantaggi non-monetari che la rendono di per sé gratificante».

Passare dal modello di homo economicus alla realtà dell'homo sapiens, anche nella teoria economica, ci aiuterebbe a comprendere realtà che altrimenti rimarrebbero misteriose così come a anche a sviluppare politiche d'azione più efficaci e a progettare organizzazioni più rispettose della nostra natura umana. Organizzazioni alle quali le persone siano felici di appartenere.

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