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Quando la posta in gioco è davvero alta meno ci pensiamo meglio è

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 01/08/2021

Ci sono stati alcuni episodi nel mondo dello sport, in questi ultimi mesi, che mi hanno colpito particolarmente, e come me molti degli appassionati e dell'opinione pubblica più in generale, almeno a giudicare dalle reazioni della stampa. Sono tre episodi differenti ma accomunati, credo, da un unico filo rosso. Penso innanzitutto alla decisione della tennista Naomi Osaka di ritirarsi improvvisamente, il 31 maggio scorso, dai Roland Garros di Parigi. Si è parlato di ansia e depressione che hanno fiaccato lo spirito della fortissima tennista giapponese, numero due del ranking mondiale e, secondo la rivista Forbes, la sportiva più ricca di sempre. Una decisione presa molto male dagli organizzatori del torneo che, per il suo ritiro, le hanno anche comminato una multa di 15.000.

La Osaka è stata, nei giorni scorsi, la tedofora che ha acceso la fiamma a Tokyo durante la cerimonia di inaugurazione della XXXII edizione delle Olimpiadi. Nel torneo olimpico è stata eliminata, inaspettatamente, agli ottavi di finale da una quasi sconosciuta Marketa Vondrousova, numero 42 al mondo. La Osaka lascia le Olimpiadi con questa dichiarazione: “Le pressioni qui per me sono tantissime. Non sono stata capace di reggere queste pressioni”.

Ma le Olimpiadi hanno visto anche altri episodi simili, il più clamoroso dei quali è, certamente, quello che ha coinvolto la ginnasta USA, Simone Biles. Anche lei una stella di primissima grandezza. Quattro medaglie d'oro alle Olimpiadi di Rio, cinque volte campionessa del mondo. Come lei nessuno mai nella sua disciplina. Durante l'esercizio nelle fasi di qualificazione mostra alcune sbavature. Impensabili per una campionessa del suo calibro. Poi le cose peggiorano durante la finale della gara a squadre. Sbaglia un volteggio e, incomprensibilmente, si ritira. Verrà sostituita dalla riserva Jordan Chiles. “Sento troppa pressione addosso” afferma la Biles in conferenza stampa. È di ieri la notizia della rinuncia alle finali individuali del volteggio e delle parallele. Non si sa ancora cosà deciderà rispetto alle gare della trave e del corpo libero previste per i prossimi giorni.

C'è un terzo episodio, forse minore, ma, credo, altrettanto rivelatore. Si tratta di quello che ha visto coinvolta la nuotatrice italiana Benedetta Pilato, primatista mondiale dei 50m rana, squalificata al termine di una batteria per “gambata irregolare”; una gara nella quale, comunque, non aveva superato il quinto posto. “Ho nuotato in maniera orribile, non so spiegare, mi sentivo stanchissima. La pressione? Può darsi quella” afferma davanti ai giornalisti. La pressione. Sembra essere il fattore comune in queste storie. Giudicare a distanza, dall'esterno, solo sulla base di notizie di stampa è, naturalmente, impossibile. Non è quello che voglio fare. Vorrei sottolineare che questi episodi, nel loro insieme, sembrano dire qualcosa e non solo agli addetti ai lavori, ma a tutti noi, appassionati di sport e no. Soprattutto se li analizziamo anche in relazione ad altri famosi casi in cui la pressione ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare disastri tanto travolgenti quanto inaspettati.

Un caso emblematico, da questo punto di vista, è certamente quello del golfista francese Jean Van de Velde. Era il 1999 e si giocavano gli ultimi colpi del British Open, uno dei tornei più prestigiosi al mondo. Van de Velde era saldamente al comando. Era arrivato alla diciottesima buca con un grande vantaggio su tutti gli altri avversari: sotto di tre colpi. Aveva un margine d'errore enorme. La vittoria era lì a portata di mano, una vittoria che avrebbe potuto cambiare radicalmente la sua carriera. Le cose andarono molto diversamente. Alla diciottesima ed ultima buca Van de Velde sbagliò tutti i colpi. Era nervosissimo, lo si vedeva sudare copiosamente. Al primo colpo, non particolarmente impegnativo, scagliò la pallina a venti metri dall'obiettivo. Il tiro successivo arrivò fino alle tribune dove la pallina rimbalzò per atterrare in una zona piana di erba alta. Con il terzo colpo Van de Velde, praticamente, arò quel prato mandando la pallina in una pozza d'acqua. Prese una penalità e ritentò il colpo. Questa volta finì nel bunker di sabbia proprio sotto il green. Gli ci vollero otto colpi per arrivare in buca, ma ormai quella vittoria che già stava assaporando era andata in fumo. Un fallimento. Dopo quell'episodio, che avrebbe potuto rappresentare per lui la svolta, la sua carriera non decollò mai definitivamente. Partecipò nuovamente nel 2005 ad un torneo importante, gli Open di Francia, ed incredibilmente anche qui, all'ultima buca, mandò la pallina in acqua compromettendo una vittoria che era ormai quasi scontata. Cosa capita a questi atleti nel momento della verità, quando la posta si fa veramente alta? Lo ha raccontato in maniera tanto sincera quanto commovente Renée Fleming, che sportiva non è, ma certo, per professione, condivide la pressione e lo stress legati alle aspettative sulla performance. La Fleming è, infatti, una grandissima soprano e performer.

A proposito di pressione e ansia da prestazione racconta nella sua autobiografia “The Inner Voice: The Making of a Singer” (Penguin, 2004) in un modo così sincero e quasi commovente, un episodio che la segnerà profondamente. Porta in scena “Le Nozze di Figaro”. Sta approcciando un'aria che aveva cantato centinaia di volte e che era certamente difficile, ma assolutamente alla sua portata, anzi, un suo vero e proprio cavallo di battaglia. La stessa aria che nel 1991, grazie ad una sostituzione dell'ultimo minuto della protagonista, aveva segnato l'inizio della sua strabiliante ascesa. “Quell'aria non è mai stata facile - scrive – però la conoscevo benissimo, avevo un'enorme esperienza al riguardo”. Eppure, in quel momento non riusciva a respirare, a trovare aria sufficiente nei polmoni; il diaframma le era nemico. Riuscì a malapena a portare a termine un'esibizione mediocre. Da quel momento le cose andarono sempre peggio, i problemi si cronicizzarono. “Ero logorata da una voce interiore molto negativa. Un chiacchiericcio nell'orecchio che diceva: non fare questo, non fare quello, il respiro è scarso, la lingua è andata troppo indietro, il palato è basso, rilassa le spalle”. Le cose peggiorarono. Nel 1998 si trovava a La Scala alle prese con la “Lucrezia Borgia” di Donizetti. Venne sommersa da una bordata di fischi da parte degli impietosi loggionisti. La sua performance era stata oggettivamente insufficiente. I fischi andarono avanti per l'intera scena finale. “Iniziai a tremare e continuai a tremare per giorni” scrive, ricordando quell'episodio emotivamente devastante. I mesi successivi furono un vero incubo. “Una notte oscura dell'anima” è la definizione che diede di quel periodo. “Consumata dal terrore ogni cellula del mio corpo gridava: no! Non posso farcela. Mi sentivo morire”. Un'esperienza singolare, ma non rara nel suo mondo. Ne hanno fatto le spese grandi artisti come Glenn Gould, Vladimir Horowitz, Barbara Streisand, tra gli altri.Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Ogni storia ha, naturalmente, connotati particolari, ma alla base sembra esserci sempre lo stesso fenomeno, quello che gli specialisti chiamano “chocking” (soffocamento). Una pressione eccessiva che determina, e non solo nei principianti, negli insicuri, nei dubbiosi, ma proprio nei migliori, nei più solidi, nei più talentuosi, un blocco delle qualità a loro più congeniali, una vera e propria paralisi cognitiva. “Soffocamento”, era proprio questa la sensazione che provava Renée Fleming sul palco. Niente aria, perdita di lucidità, certezza che il fallimento era diventato inevitabile.

La cosa che fa veramente impressione del “chocking” è che si tratta di un fenomeno del tutto interno alla persona. Sono i nostri stessi pensieri a determinare quello stato d'animo che ci porta al fallimento. Niente di oggettivo, nessuna difficoltà imprevista, solo la contemplazione della possibilità di fallire che, amplificata dal nostro cervello, determina, essa stessa, le condizioni effettive del fallimento. Ma da dove origina questa spirale perversa di aspettative, ansia e panico? Coloro che più si sono occupati di studiare il fenomeno sono concordi. Se pensi troppo alle probabilità di un fallimento, anche quando il fallimento è l'ultima cosa che dovrebbe verificarsi, queste stesse probabilità crescono esponenzialmente. Quando la paura di sbagliare prende il sopravvento si innesca un meccanismo per il quale iniziamo ad auto-analizzarci: “Starò facendo bene?”, “Sarebbe meglio se facessi così invece che cosà?”, “Sarò in grado di rispondere alle aspettative?”, e così via. Ci concentriamo su noi stessi invece che su ciò che dovremmo fare. Questo blocca gli automatismi appresi e rende meno fluida, spontanea ed efficace la nostra azione. Un ginnasta esperto non pensa all'esercizio, lo esegue. Un pianista esperto non pensa alle note da suonare, le suona. Un cantante di talento non ricorda lo spartito, lo interpreta automaticamente. Quando, invece, la preoccupazione ci induce a pensare troppo a ciò che stiamo per fare, questi automatismi acquisiti si bloccano e così la magia di quelle performance, la loro naturalezza e bellezza. Il talento viene mortificato dal controllo, l'ispirazione dalla ragione. Questo genere di deliberazione uccide tutto ciò che l'eccellenza nell'arte, nello sport, ma, spesso, anche nel lavoro, invece, può produrre. Siam Beilok, psicologa dell'Università di Chicago ha studiato questi meccanismi utilizzando come protocollo sperimentale proprio il golf. Tra i mille risultati interessanti delle sue ricerche c'è, per esempio, quello che mette in evidenza una relazione inversa tra efficacia dei colpi e livello di coscienza dei giocatori. Tanto più a lungo i golfisti vengono indotti a riflettere sulla meccanica dei loro colpi, tanto minore sarà la probabilità di andare in buca, e viceversa. Questo vale però solo per i giocatori esperti. I principianti, invece, hanno molto bisogno, per imparare, di pensare ad ogni singolo movimento, ad ogni singolo muscolo, ad ogni possibile variante del colpo, per aumentarne l'efficacia. Ma quelli che, invece, sono già esperti dovrebbero, piuttosto, sospendere la deliberazione cosciente ed andare con l'autopilota.

Eppure, ogni tanto, quel salvifico autopilota viene disattivato. Perché? Qui si innesta un ulteriore elemento del nostro ragionamento. Sospetto che questo possa capitare quando la posta in gioco diventa davvero alta. Noi economisti insegniamo che, in genere, la relazione tra l'impegno che un individuo profonde in una certa attività e l'incentivo associato a quell'attività, la ricompensa, il premio, è una relazione monotòna, con l'accento sulla terza “o”. Significa che se l'incentivo cresce, certamente l'impegno profuso e, possibilmente, anche la performance, non diminuiranno. Ne consegue che, per ottenere performance migliori, sarà sufficiente aumentare gli incentivi. Questo in alcuni casi è empiricamente vero. Ma solo in alcuni casi ben definiti. Per esempio, quando il compito da svolgere è molto semplice, meccanico e ripetitivo. Quando, invece, il compito in questione, magari, richiede un minimo di creatività per essere svolto, allora, all'aumentare degli incentivi possiamo osservare una riduzione della performance. Sappiamo queste cose più o meno dagli anni '60, eppure la vulgata e la pratica organizzativa e manageriale ancora faticano ad accogliere tali risultati. Non sempre e non automaticamente alzare la posta produce performance migliori. Le persone sotto il peso delle ricompense, spesso, crollano. Claude Steele è professore emerito di psicologia all'Università di Stanford. In uno dei suoi esperimenti sottopose a degli studenti una serie di test che, disse, dovevano valutare il loro livello di intelligenza. Dai risultati emerse una significativa differenza tra la media dei risultati dei partecipanti bianchi che ottenevano punteggi nettamente superiori rispetto a quelli ottenuti dagli studenti neri. Stranamente, però, quando lo stesso test veniva presentato come un esercizio preparatorio per l'esame finale, questa differenza magicamente scompariva. Lo stesso capitava con le ragazze alle quali venivano sottoposti test via via descritti o come strumenti di misurazioni delle differenze cognitive tra i generi, oppure come semplici esercizi di ripasso delle nozioni apprese. Quando faccio un test simile, sembrano suggerire i risultati di Steele, posso essere indotto ad una performance migliore o peggiore in base al fatto di pensare o meno che gli altri si aspettano da me una certa performance. In questo modo i pregiudizi si auto-rafforzano e le differenze si ingigantiscono. Sono tutti esempi che mostrano come, in certe occasioni, che possono anche essere create ad arte, l'attivazione della deliberazione razionale può dimostrarsi assolutamente controproducente.

Il legame tra queste considerazioni e i casi sportivi citati in apertura può sembrare più o meno robusto, è presto per dirlo; certamente, la questione della pressione cui lo star system, gli sponsor e i media, sottopongo questi giovani atleti e performers andrebbe affrontata con maggiore apertura e sincerità. Lo ha fatto Renée Fleming, così come André Agassi. Non possono rimanere casi isolati.

Gli insegnamenti che possiamo trarre dalle loro storie è un insegnamento che può essere utile a ciascuno di noi. Non è possibile misurare il merito sulla base del successo; non è possibile incentivare il successo aumentando la posta in gioco; esistono forme di competizione buone e forme tossiche. C'è quella competizione che spinge all'impegno e alla ricerca dell'eccellenza, così come, al contrario, c'è quella competizione che schiaccia e umilia vincitori e vinti. Noi tutti, prima o poi, siamo chiamati a decidere da che parte stare. Lo saremo molto più spesso di quanto generalmente pensiamo. Con gli atleti impegnati alle Olimpiadi, coi nostri colleghi e collaboratori al lavoro, coi nostri figli e i loro amici, con i nostri studenti e con i loro insegnanti, con chi ce l'ha fatta, intorno a noi, e con chi, invece, arranca e rischia di essere lasciato indietro. Alzare la posta e spingere verso una maggiore competizione non sempre è la soluzione. Piuttosto, a volte, è proprio questa la causa del problema.

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