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La sorpresa dell’errore è la chiave del cambiamento

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 21/02/2021

Gli errori possono essere generativi. Possono aiutarci a migliorare noi stessi, le organizzazioni nelle quali operiamo, i sistemi complessi dai quali siamo circondati, la qualità della nostra vita e delle nostre relazioni più in generale. Eppure, il passaggio dall'errore al miglioramento non è in nessun modo scontato, né immediato. Non sempre, in altre parole, vale il detto popolare “sbagliando s'impara”. Ecco perché è fondamentale chiedersi quali siano le condizioni che favoriscono o ostacolano tale processo di apprendimento.

L’ “effetto spettatore”

Una storia interessante può aiutarci a capire questo passaggio. Il “bystander effect”, l'”effetto spettatore”, è un fenomeno tristemente noto nell'ambito della psicologia sociale e descrive la nostra riluttanza a soccorrere qualcuno in difficoltà quando vediamo che c'è anche qualcun altro che potrebbe farlo. In altri termini, la presenza di altri potenziali soccorritori scoraggia ciascun singolo potenziale soccorritore dall'intervenire.

Paradossalmente, quindi, per la persona in difficoltà, la presenza di molti potenziali soccorritori fa diminuire, invece che aumentare, la probabilità di ottenere l'aiuto di cui ha bisogno. Gli studi sull'”effetto spettatore” vennero stimolati, inizialmente, da un terribile fatto di cronaca, l'assassinio di Kitty Genovese, avvenuto a New York nel 1964.

Il New York Times pubblicò un articolo riportando che ben trentotto persone assistettero alla scena dell'omicidio, ma nessuna intervenne in maniera determinante per scongiurare la tragica fine della ragazza. Quella ricostruzione venne successivamente smentita, ma fu sufficiente a suscitare l'interesse di due psicologi sociali che iniziarono ad indagare il nesso tra responsabilità individuale e responsabilità collettiva.

L'”effetto spettatore” venne dimostrato sperimentalmente, per la prima volta, in uno studio condotto sul finire degli anni '60 da John Darley e Bibb Latané, psicologi della New York University (“Bystander intervention in emergencies: Diffusion of responsibility”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 8, 1968, pp. 377–383). I partecipanti allo studio venivano invitati a prendere posto all'interno di una stanza nella quale si trovavano delle piccole cabine isolate, sia visivamente che acusticamente, l'una dall'altra. A turno ogni partecipante avrebbe dovuto parlare di sé agli altri, attraverso il microfono di cui ogni cabina era dotata.

Il primo esperimento

Nelle cabine, in realtà, si trovavano solo il soggetto sperimentale ed un'altra persona, un attore d'accordo con gli organizzatori dello studio. Ad un certo punto del suo intervento l'attore faceva riferimento a sporadici attacchi epilettici cui andava soggetto soprattutto in condizioni di stress. In un secondo momento, quando aveva nuovamente la possibilità di parlare attraverso il microfono, fingeva, prima una condizione di forte disagio, poi delle convulsioni, fatica a respirare, rantoli e la performance terminava con un “Q-qualcuno m-mi a-aiuti, sto per m-morire, p-per m-morire, ho una crisi, ho u-una”, al quale seguiva un allarmante silenzio.

Darley e Latané erano interessati alla reazione del soggetto sperimentale che udiva un'altra persona nella stanza in grande difficoltà e, forse, anche in pericolo di vita. Erano interessati, innanzitutto, a capire se il potenziale soccorritore avrebbe deciso o no di intervenire e quanto tempo gli ci sarebbe voluto per decidere. L'esperimento aveva tre varianti in relazione alla dimensione del gruppo. Nella prima versione il soggetto sapeva di essere solo nella stanza con un'unica altra persona, l'attore. Nella seconda variante credeva che ci fossero altre due persone e nella terza variante gli veniva fatto credere che il gruppo fosse formato da altre cinque persone oltre lui.

Più persone meno interventi di soccorso

I risultati furono piuttosto sconfortanti: la disponibilità ad intervenire a soccorso del malcapitato diminuiva significativamente con l'aumentare della dimensione del gruppo. Quando il gruppo era formato da sole due persone, l'85% dei partecipanti decise di uscire dalla cabina per aiutare l'attore; la percentuale si ridusse al 62% e poi al 31% nel caso di gruppi di tre e di sei persone rispettivamente. Analogamente il tempo di reazione tendeva ad aumentare passando dai 52 secondi nel caso del gruppo più piccolo, fino ai 166 secondi nel caso del gruppo di sei.

Cosa possiamo concludere se non che la presenza di altri possibili soccorritori determina una riduzione del senso di responsabilità di ciascun partecipante che, quindi, si sente, in qualche modo, sollevato dall'urgenza di intervenire. Ne deriva che, come si diceva, la presenza di un numero crescente di potenziali soccorritori riduce la probabilità che la persona in difficoltà riceva il tempestivo soccorso di cui avrebbe bisogno.

A metà degli anni '70 lo psicologo Richard Nisbett e Eugene Borgida, allora suo studente all'Università del Michigan, sfruttarono questi risultati per indagare un particolare aspetto di una questione più generale, che è, poi, quella che interessa a noi qui e che si riferisce a quanto e a come impariamo dai nostri sbagli. Nel loro esperimento, Nisbett e Borgida considerano due gruppi di soggetti. Al primo gruppo viene spiegato il funzionamento dell'esperimento condotto a New York da Darley e Latané, quello che abbiamo appena descritto, mentre al secondo gruppo, invece, vengono illustrati sia il funzionamento dello studio, che i suoi risultati. Questi mettono in luce, in particolare, che solo un terzo dei partecipanti (4 su 15), nel caso del gruppo numeroso, avevano deciso di prestare soccorso.

Il secondo esperimento

In una fase successiva dello studio, ai partecipanti vengono mostrati due video di persone che, così gli venne detto, avevano preso parte all'esperimento originale. I video riportano delle interviste volutamente neutre dove i protagonisti rispondono a domande su di loro, i loro hobby, le loro attività, etc. Ai partecipanti di entrambi i gruppi viene, a questo punto, chiesto di indovinare se i due intervistati sono tra quelli che avevano prestato soccorso oppure no.

Provate a mettervi nei loro panni. Come avreste risposto a questa domanda? Come si dovrebbe rispondere a questa domanda? Il primo gruppo non ha informazioni specifiche e quindi si può basare solo su un'idea generale e stereotipata del comportamento umano in situazioni di quel tipo, oltre che sull'impressione ricevuta dalle interviste. Tutti i partecipanti del primo gruppo si dissero convinti che i due intervistati avevano certamente deciso di aiutare il soggetto in difficoltà. Si può capire.

Meno comprensibile è, invece, il comportamento dei membri del secondo gruppo. Questi infatti avevano a disposizione delle preziose informazioni aggiuntive. Erano a conoscenza dei risultati dello studio. Sapevano bene che solo 4 partecipanti su 15, il 27%, aveva scelto di aiutare e che, quindi, la probabilità che un partecipante scelto a caso, come quelli mostrati nelle interviste, sia effettivamente uno dei soccorritori, era decisamente bassa.

Risposte contro la statistica

Certo i video avrebbero potuto aggiungere ulteriori indicazioni, qualche suggerimento sul carattere e le tendenze del protagonista, ma ricordiamoci che le interviste erano state accuratamente pensate per essere neutre, prive di ogni indicazione rilevante da questo punto di vista.

L'unica informazione concreta ed affidabile era, dunque, quella sui risultati dello studio e quei dati ci avrebbero dovuto portare a rispondere che i soggetti in questione avevano scelto di non aiutare. Invece, incomprensibilmente, anche tutti i partecipanti del secondo gruppo risposero che, secondo loro, i due intervistati erano, contro ogni ragionamento statistico, tra coloro che avevano scelto di aiutare (Attribution and the psychology of prediction. Journal of Personality and Social Psychology, 1975, 32(5), pp. 932–943).

Abbiamo una situazione di questo tipo: il tipico partecipante del secondo gruppo ha, così come quelli del primo gruppo, una certa idea a priori del comportamento umano che dice, più o meno che, se qualcuno è in difficoltà, chi è presente porterà soccorso. Però poi arrivano i dati di realtà. Questa idea a priori viene smentita dai risultati dell'esperimento: in certe circostanze particolari, quando, per esempio, sono presenti molti altri “spettatori”, anche persone assolutamente rispettabili e degne, possono essere indotte a comportamenti immorali e indegni.

La questione fondamentale diventa allora: quanto questo dato di realtà è in grado di modificare le nostre credenze a priori? Quanto siamo disposti ad imparare dalla nostra errata valutazione iniziale, dal nostro errore? I risultati di Nisbett e Borgida ci inducono al pessimismo. Sembra che in simili circostanze nessuno sia disposto a cambiare idea, ad accettare l'errore e a scegliere di apprendere. Come concludono gli stessi autori, sembra che i partecipanti al loro studio si siano “tacitamente esonerati” dall'imparare qualcosa dalla realtà, perché quella realtà andava contro le loro convinzioni a priori.

Come superare le convinzioni a priori

Ma allora, quindi, non abbiamo speranza? Come facciamo ad imparare dal confronto con la realtà? I dati non ci dicono davvero niente? Qui le cose si fanno interessanti, perché occorre considerare che non tutti i dati sono uguali, non tutte le rappresentazioni della realtà ci dicono la stessa cosa, non tutte le esperienze ci parlano allo stesso modo. Quello che Nisbett e Borgida scoprirono nel prosieguo del loro studio è che, per far apprendere i loro soggetti dai propri errori, bisognava stupirli.

Ma non bastava comunicargli dati statistici sorprendenti; non era sufficiente comunicargli che solo 4 partecipanti su 15 avevano deciso di soccorrere una persona che credevano fosse in pericolo di vita. Occorreva comunicargli, invece, per esempio, che le due rispettabilissime persone intervistate, erano, a dispetto delle impressioni, tra coloro che avevano deciso di non prestare soccorso. Quello sì che funzionava. Infatti, partendo da quel dato, i partecipanti di un terzo gruppo riuscirono a prevedere le scelte dei partecipanti allo studio originario di New York, in maniera sorprendentemente precisa. Come concludono gli stessi Nesbett e Borgida: «La riluttanza dei soggetti a dedurre il particolare dal generale era pari solo alla loro propensione a inferire il generale dal particolare».

Due esempi vividi e facilmente comprensibili di quanto possa essere difficile, anche per delle brave persone, in particolari circostanze, fare una scelta apparentemente scontata, avevano messo in moto un processo di inferenza dal singolo caso al principio generale che aveva operato un cambiamento importante delle convinzioni a priori. Questo ha fatto scattare l'apprendimento.

La statistica non basta, servono i casi individuali

Per imparare dai propri errori occorre, dunque, potersi sorprendere, anche se la sorpresa è condizione necessaria ma non sufficiente affinché si impari. Lo sottolinea molto bene anche il Nobel Daniel Kahneman nel suo “Pensieri lenti e veloci” (Mondadori, 2012): «Vi è un divario enorme tra il nostro pensare alla statistica e il nostro pensare ai casi individuali. I risultati statistici accompagnati da un'interpretazione causale influiscono molto di più sul nostro modo di pensare delle informazioni non causali. Ma nemmeno dati statistici causali molto interessanti cambiano convinzioni profonde o credenze intimamente radicate nell'esperienza personale. Sono piuttosto i casi individuali sorprendenti ad avere una potente influenza».

Abbiamo bisogno di storie e di storie sorprendenti perché, continua Kanheman: «l'incongruenza deve essere risolta e incorporata in una storia causale». E i dati statistici spesso non bastano. Abbiamo necessità di testimoni, di storie credibili, che sappiano sorprenderci, grazie alle quali attivare processi di apprendimento, storie che ci mettano davanti ai nostri errori, alle nostre visioni errate e stereotipate, abbiamo bisogno di maestri di cambiamento, “saggi gentili”, li ho chiamati una volta, che ci accompagnino nel cammino della nostra crescita con discrezione e onestà. Che sappiano parlarci con un linguaggio pieno di senso e risposte, non solo di quei dubbi e quelle angosce generate dai nostri errori. Saggi gentili, fonte di continua sorpresa e novità, che ci possano aiutare ad essere, insieme, migliori di quanto, mai, potremmo essere da soli.

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