I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la nuova serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato sul Sole 24 ore del 24/02/2019
Vi hanno piazzato dentro una macchina per la risonanza magnetica funzionale. Un grande magnete, un tubo rumoroso e un po’ angosciante ma che possiede la fantascientifica capacità di “vedere” ciò che capita nel vostro cervello, proprio mentre sta capitando. Un vero e proprio scanner cerebrale. Concentrandosi sulla rilevazione del livello di ossigenazione delle differenti aree del cervello, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è in grado di misurare, attraverso l’afflusso maggiore o minore di ossigeno trasportato dall’emoglobina, l’attivazione differenziale delle aree cerebrali. Detto in altri termini, attraverso questa tecnica possiamo capire, in vivo, quali sono le aree del nostro cervello che vengono attivate nel momento in cui facciamo certe cose: guardare, leggere, fare calcoli, sentire musica, sognare, pensare, soffrire, etc.
Mettiamoci dentro questo tubo, allora, e iniziamo a giocare a “Cyberball”. È un videogioco semplice, molto semplice, funziona in questo modo: ci sono due personaggi virtuali che si lanciano una palla; ogni tanto la passano anche a voi, e voi, cliccando sul pulsante destro o su quello sinistro, potete rilanciare la palla verso il personaggio posizionato alla vostra destra o alla vostra sinistra. Nel frattempo, la fMRI rileva l’attivazione delle vostre aree cerebrali. Ad un certo punto succede qualcosa, però: i due personaggi virtuali del gioco, iniziano a passarsi la palla tra di loro, continuamente, senza più coinvolgervi. Venite esclusi. Vi sentite allontanati, respinti, rifiutati. Vabbè, è un gioco, lo sapete, eppure il vostro cervello reagisce male alla cosa. Questa piccola esperienza di esclusione sociale, benché voi coscientemente sapete che si tratta di un gioco e che quei personaggi non sono reali, attiva nel vostro cervello una reazione potentissima: iniziate a provare dolore, più precisamente “dolore sociale” (social pain). La cosa sorprendente è che questo “dolore sociale” deriva dalle stesse aree cerebrali – questo ce lo dice la risonanza magnetica funzionale – che si attivano quando proviamo un dolore fisico, quanto, cioè, ci pestiamo un dito, quando ci bruciamo la mano, quando ci fratturiamo un braccio. I circuiti implicati nell’elaborazione del dolore fisico sono esattamente gli stessi, e cioè la corteccia cingolata dorsale anteriore (dACC), di quelli che attiviamo quando sperimentiamo il dolore sociale, derivante dall’esclusione e dalla discriminazione (Eisenberger, Lieberman, Williams, 2003. “Does rejection hurt? An FMRI study of social exclusion”. Science, 302:5643, pp. 290-2).
Il dolore sociale è così simile al dolore fisico che i suoi sintomi si possono attenuare con la somministrazione di farmaci analgesici come il paracetamolo. È come se nel corso dell’evoluzione dei mammiferi, la reazione all’esclusione sociale avesse hackerato i circuiti cerebrali deputati all’esperienza del dolore fisico solo per ricordarci quanto dannoso possa essere il sentirsi socialmente distaccati, esclusi, rifiutati dagli altri e quale minaccia ciò rappresenti per la nostra stessa sopravvivenza. Non è un caso che usiamo abitualmente frasi come «mi hai spezzato il cuore», «hai ferito i miei sentimenti» o «è stato come un pugno nello stomaco». Tutte espressioni che uniscono e fanno sfumare tra loro gli spazi semantici del dolore fisico e di quello sociale. Sfumano e si identificano. Questo linguaggio metaforico, alla luce di quello che stiamo imparando sul nostro cervello sociale appare decisamente meno metaforico di come possa apparire. La pressione evolutiva ha originariamente selezionato questo tratto comportamentale, la capacità di provare dolore sociale, per spingere i piccoli umani, i nostri figli, a non allontanarsi troppo dai genitori e quindi a stare più al sicuro, sotto la protezione di adulti che li amano. Ma anche per indurli durante tutto il corso della loro vita a cercare e coltivare rapporti sociali, relazioni cooperative, dalle quali, fortemente, dipendeva e continua a dipendere anche oggi il nostro benessere e perfino la nostra sopravvivenza.
Ora, detto tutto questo, proviamo a metterci nei panni di quel bambino di Foligno, nato in Italia da genitori nigeriani, che qualche giorno fa, durante una mattinata di lezione che lui immaginava come tutte le altre, il maestro ha fatto alzare dal banco, mettere in disparte con il viso rivolto verso la finestra per poi dirgli, additandolo davanti a tutti i compagni: «Sei troppo brutto per guardarmi».
«Ero lì da solo davanti alla finestra e non riuscivo a capire il perché, il tempo passava e non cambiava nulla», racconta il bimbo. L’insegnante si è giustificato dicendo che si trattava di un “esperimento sociale”. Il Ministero lo ha sospeso e l’ufficio scolastico regionale ha aperto un’inchiesta. Pensiamo anche a Bakary e ai suoi genitori adottivi. Ventun anni e una passione per il calcio. Arrivato in Italia dal Senegal qualche anno fa e perfettamente integrato a Melegnano, la cittadina dove vive. O così almeno pensava, fino a qualche giorno fa, quando, uscendo di casa ha letto quella scritta, “ammazza al negar” e ha visto quella svastica disegnata con tratto sghembo, quasi infantile.
È un’escalation in questi ultimi tempi: dalle frittelle di carnevale regalate dal consigliere comunale di Mantova, Luca de Marchi (Fratelli d’Italia), ma solo ai bambini italiani, ai duecento alunni, figli di immigrati, esclusi dalla mensa e dal servizio scuolabus a causa di un regolamento restrittivo approvato dal sindaco leghista di Lodi, Sara Casanova. Dal 2016 ad oggi, ci ricorda l’associazione Lunaria, le denunce per violenza a sfondo razzista sono triplicate. Erano 27 nel 2016, 46 nel 2017 e 126 l’anno scorso. I dati dell’Ocse relativi ai crimini d’odio raziale vanno nella stessa, preoccupante, direzione.
La diffidenza, la chiusura mentale che sfocia nel bullismo soprattutto a sfondo raziale e la prevaricazione nei confronti del diverso, o semplicemente di chi ci fa paura perché non riusciamo a comprenderlo, sembra essersi trasformata da una forma di devianza individuale ad una giustificata reazione sociale, istituzionalmente legittimata.
Questi atteggiamenti, questi comportamenti, non feriscono chi ne è vittima, solamente perché ci si sente rigettati e scartatati da qualcuno, ma perché portano a credere, nel silenzio e nella tacita approvazione di chi dovrebbe invece condannarli, che i bulli, i prepotenti, parlino a nome di tanti, della maggioranza. «Se questi ci escludono, ci feriscono, è perché non piacciamo a nessuno, allora, forse, hanno ragione loro, la maggioranza. Noi non valiamo niente». Questa esperienza genera dolore, come un braccio spezzato, una mano bruciata, una testa rotta.
Quanta speranza, allora, ci danno i compagni di classe del piccolo di Foligno, che davanti al gesto sconsiderato del maestro, che speriamo ancora si possa rivelare un enorme malinteso, si sono alzati dai banchi, si sono diretti verso la finestra e si sono stretti intorno al loro amico. «Noi siamo uguali – hanno detto al maestro - noi siamo come lui, perciò anche noi ora stiamo qui, fermi, a vedere il mondo là fuori».
Il mondo là fuori, infatti, non è il male, ma è ciò che ci salva, il rapporto con gli altri, soprattutto se differenti da noi. È invece, scappare dalla diversità, chiudersi all’incontro, immunizzarsi dal contatto con altro-da-noi che trasforma la nostra vita in un inferno. Ci rende, per dirla con Graham Greene, prigionieri della «peggiore delle celle possibili; il nostro io».