Mind the economy

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Il paradosso di Easterlin e le aspirazioni degli anti-casta

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la nuova serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore il 27/01/2019

In principio c’erano i “cittadini-portavoce” i “politici non-politici”, l’”uno vale uno”, e le scatolette di tonno. Poi in quella scatoletta i 5stelle ci sono entrati e si devono essere trovati bene. Col Parlamento, sono arrivate le Commissioni, le cariche, il Governo, i Ministeri e i cittadini-portavoce di ieri sono diventati gli onorevoli di oggi. Quella casta tanto odiata e sbeffeggiata ora sono loro; non si vergognano più di essere chiamati onorevoli e quando chiedono di essere invitati ai convegni, vogliono stare tra le autorità, come la mail dell’on. Carla Ruocco, maldestramente inviata ai destinatari sbagliati, dimostra. Intendiamoci, non c’è proprio niente di male, anzi. E’ meno fastidioso questo atteggiamento “istituzionale” che l’ostentazione della differenza fatta per marcare la distanza tra “noi” e la vecchia politica; tra il nuovo, l’onesto e il giusto e il resto del mondo, sott’inteso, vecchio, disonesto e ingiusto. Non c’è niente di male, magari un po’ di incoerenza, ma si sa, sono giovani. 

La mutazione, comunque, era quasi scontata, si sarebbe prima o poi manifestata. E’ nella natura delle cose, infatti, che al crescere dei risultati cambino anche le aspirazioni.

Nel 1974, il demografo americano Richard Easterlin pubblicò un saggio destinato a diventare famoso. In quel lavoro veniva analizzata la relazione tra ricchezza pro-capite e benessere soggettivo. I risultati furono eclatanti, tanto da andare a costituire quello che oggi è noto come “Paradosso di Easterlin”: se confrontiamo diverse nazioni tra loro per PIL pro-capite e benessere soggettivo dei loro cittadini, vedremo che le nazioni più povere saranno anche quelle con un livello medio di benessere soggettivo più basso. E fin qui nulla di strano. Nelle nazioni più povere il benessere percepito è più basso. Man mano che il reddito cresce, però, che osserviamo nazioni progressivamente più ricche, questa correlazione si indebolisce, fino a sparire del tutto. Se prendiamo in considerazione poi le nazioni, ma nel tempo, osserviamo che all’aumentare del reddito il benessere soggettivo non cambia, anzi, in alcuni casi, addirittura si riduce. Utilizzando nuovi dati e metodologie statistiche più sofisticate, Eugenio Proto e Aldo Rustichini hanno confermato questa conclusione (“A Reassessment of the Relationship between GDP and Life Satisfaction”, PLoS ONE, 8(11) 2013): ricchezza e benessere crescono insieme in quei paesi che hanno un PIL pro-capite inferiore ai $15.000, al di sopra di questa soglia la relazione si appiattisce fino a circa $30.000. Nelle nazioni con un PIL pro-capite superiore a questa cifra, maggiore ricchezza è associata a minore benessere.

Naturalmente un risultato così contro-intuitivo ha dato vita, negli anni, ad un intenso dibattito tra gli studiosi di varie discipline e ha fatto emergere diverse possibili spiegazioni. Una, in particolare ci sembra rilevante per il nostro tema di apertura. “Running to stand still” cantavano qualche anno fa gli U2 in The Joshua Tree. Correre ma rimanere fermi. Questo è il concetto di “treadmill”, un grande tapis-roullant sul quale saliamo, sul quale camminiamo e corriamo, per poi, alla fine, renderci conto di essere ancora esattamente nello stesso posto. Questi “treadmill” sono alla base della spiegazione del perché se il reddito aumenta, superata una certa soglia, la maggiore ricchezza non porta maggiore benessere nella percezione delle persone. In particolare, il “satisfaction treadmill” spiega questo fenomeno ponendo l’accento sul fatto che all’aumentare del reddito aumentano, proporzionalmente, anche le aspirazioni. Se oggi sono più ricco di ieri, ma ciò che ritengo necessario per una vita soddisfacente è oggi diverso, è aumentato rispetto a ieri, le mie aspirazioni continueranno ad avere lo stesso grado di soddisfacimento o non soddisfacimento, che avevano ieri; cioè l’aumento del reddito non avrà un effetto significativo sul mio livello di benessere percepito a causa del fatto che la differenza tra quello che ho e quello che desidero rimane immutata. Ciò che conta davvero per la felicità, quindi, non è tanto il livello del reddito per sé, ma piuttosto la distanza che c’è tra reddito e aspirazioni. Se queste ultime crescono con il reddito, anche se divento più ricco, ciò non avrà effetto sulla mia felicità (si veda anche Stutzer, (2004) “The Role of Income Aspirations in Individual Happiness” Journal of Economic Behavior and Organization, 54(1), 89-109).

Naturalmente il Paradosso di Easterlin è un fenomeno complesso e la sua spiegazione coinvolge molti altri aspetti: i fenomeni di assuefazione, per esempio, i confronti sociali, e altri. Ma il nesso tra benessere materiale e aspirazioni descritto nel “satisfaction treadmill”, ne sta certamente al cuore. Crescono i risultati e con essi le aspirazioni.

Nessuna sorpresa dunque che l’anti-casta di ieri sia diventata, quasi impercettibilmente, ma molto velocemente, la casta di oggi. Che i cittadini-portavoce di ieri si facciano chiamare oggi, e giustamente, “onorevole”. Che chi ieri tuonava contro il Parlamento ridotto ad “luogo di concessione della grazia per indagati e condannati”, oggi si trovi davanti al dilemma se votare contro l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini, oppure continuare a governare con un ministro indagato. Tutto ciò è nei fatti, nella natura delle cose, quando si passa dalla fantasia alla realtà, dall’infanzia all’età adulta, dall’opposizione, al governo del Paese. Cambiano gli obiettivi e con essi, le “onorevoli” aspirazioni.

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