È possibile introdurre una with holding tax europea che permetta di intercettare i flussi diretti verso i paradisi fiscali extra-UE, ma anche verso gli Stati membri che agiscono come facilitatori dell’evasione
di Alberto Ferrucci
Pubblicato su Città Nuova il 31/07/2025
Nel mondo di oggi, le grandi multinazionali e i colossi della finanza hanno un potere che supera ogni frontiera. Con bilanci superiori a quelli di molti Stati, riescono a influenzare governi, scrivere le regole a proprio vantaggio e soprattutto sfuggire a un principio fondamentale della democrazia: pagare la propria parte di imposte.
Mentre i cittadini comuni e le piccole imprese versano imposte ogni anno e chi lavora fa i conti con stipendi fermi e servizi pubblici sempre più fragili, i grandi gruppi internazionali continuano a generare profitti miliardari nei paesi dove operano, spostandoli però in giurisdizioni dove il fisco è pressoché inesistente. Così facendo, sottraggono agli Stati miliardi di euro che potrebbero finanziare ospedali, scuole, trasporti, assistenza sociale.
È una forma sofisticata di sottrazione collettiva, che ha però un volto molto concreto: quello di chi vive in condizioni di precarietà pur lavorando, quello delle famiglie che non trovano un pediatra, degli studenti in scuole senza riscaldamento, degli anziani che attendono mesi per una visita.
Le cifre sono chiare. Secondo l’OCSE, ogni anno tra 100 e 240 miliardi di dollari di tasse vanno in fumo a causa delle strategie di spostamento dei profitti da parte delle multinazionali. Il Tax Justice Network spinge la stima ancora più in alto, oltre i 1.000 miliardi di profitti artificialmente spostati in paradisi fiscali, cioè in luoghi dove le imposte sono minime o inesistenti.
Sul loro sito web, Tax Justice Network presenta esempi concreti e molto convincenti: si scopre come colossi globali della tecnologia, della moda o della farmaceutica riescano legalmente a far transitare i profitti da un paese all’altro, spesso attraverso strutture societarie complesse, pagando alla fine aliquote effettive del 2 o 3 per cento, anche su fatturati miliardari. È una realtà documentata e difficilmente contestabile, che rivela la portata sistemica del problema.
Non è solo una questione globale: riguarda da vicino anche l’Europa, dove le stesse multinazionali riescono spesso a pagare meno del 10% di tasse, contro un’aliquota per le altre aziende che supera il 25.
C’è poi un altro elemento ancora più insopportabile. Le multinazionali utilizzano come tutti ogni giorno i servizi pubblici dei paesi in cui operano: usano infrastrutture pagate con le tasse di tutti, contano su sistemi giudiziari che tutelano i contratti, beneficiano della sicurezza garantita dalle forze dell’ordine, si affidano a lavoratori formati da scuole pubbliche. Eppure, quando si tratta di restituire qualcosa alla collettività, portano i profitti altrove.
Un controllo fiscale mondiale sarebbe la risposta più giusta. Da anni l’ONU propone la creazione di un sistema globale di regolazione contro l’evasione delle multinazionali, con un’autorità fiscale internazionale in grado di tracciare i flussi di profitto e armonizzare la tassazione tra gli Stati. È una proposta ambiziosa, ma anche giusta. Tuttavia, i rapporti di forza globali – in cui le grandi economie e le lobby finanziarie dettano legge – rendono questo scenario ancora lontano.
Di fronte a questa situazione serve un cambiamento vero, concreto. L’India, per esempio, ma anche la Tunisia e la Mongolia, hanno adottato una misura semplice ed efficace: una tassa alla fonte, detta withholding tax, che viene trattenuta automaticamente quando un’azienda indiana paga una società estera per servizi, licenze o altri beni immateriali. Una parte di quanto dovuto all’azienda estera così resta allo Stato in cui quel profitto è stato generato, impedendo che tutto vada all’estero, senza alcuna remunerazione per i servizi pubblici che lo hanno reso possibile. È una misura di buon senso, che garantisce almeno un contributo minimo a chi offre mercato, consumatori e servizi.
Ed è una strada che l’Europa dovrebbe seguire. Immaginare una with holding tax europea significa trattenere una quota dei pagamenti non solo verso i paradisi fiscali extra-UE, ma anche verso gli Stati membri, visto che, di fatto, alcuni di essi agiscono come facilitatori dell’evasione. Paesi come l’Olanda, l’Irlanda, il Lussemburgo o Cipro sono da anni utilizzati come “condotti” per far transitare utili destinati a scomparire nei conti offshore.
Questa imposta potrebbe poi accompagnarsi con accordi di compensazione fiscale attraverso un meccanismo europeo trasparente, secondo regole comuni e condivise.
Secondo studi recenti, una misura simile permetterebbe di recuperare in ognuno dei maggiori paesi europei 10–15 miliardi di euro solo applicando una ritenuta del 10% su dividendi, interessi e royalties.
Per l’Italia, le stime parlano di 14 fino a 32 miliardi di euro l’anno di gettito potenziale perso, risorse che farebbero la differenza per finanziare il welfare, ridurre la povertà lavorativa e migliorare i servizi per tutti.
Si tratta di una questione di giustizia. Non solo fiscale, ma sociale. Se vogliamo una società più equa, più stabile, dove il lavoro sia dignitoso e i servizi pubblici garantiti, non possiamo più permettere che i grandi profitti se ne vadano senza lasciare traccia.
Le tasse non sono una punizione: sono il prezzo giusto per partecipare alla vita collettiva. E chi guadagna molto, grazie a un sistema che funziona, deve contribuire di più, non di meno.
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