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Perché non tutti gli errori vengono per nuocere: il cambiamento passa anche dagli sbagli 

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 14/02/2021

Ci sono errori che facciamo per paura di fare altri errori. Quando Ziming Xuan, scienziato comportamentale della Boston University e il suo collega Howard Shaffer, psichiatra dell'Harvard Medical School analizzarono il comportamento di una serie di giocatori d’azzardo che avevano dovuto chiudere il loro account online perché avevano perso tutto scoprirono sorprendentemente che la frequenza, l’ammontare e la rischiosità delle scommesse tendevano ad aumentare con l’avvicinarsi del momento della bancarotta.

Il rischio di un circolo vizioso

Maggiori perdite inducevano comportamenti sempre più rischiosi e costosi innescando un pericolosissimo circolo vizioso indotto dal disperato, quanto vano, tentativo di non realizzare le perdite (“How do gamblers end gambling: Longitudinal analysis of internet gambling behaviors prior to account closure due to gambling related problems”. Journal of Gambling Studies 2009, 25, pp. 239–252). Immaginate di trovarvi di fronte ad una scommessa di questo tipo: «Se esce croce, perdi 100 euro, se esce testa, invece, vinci 150 euro». Accettereste di giocare? Del resto, il valore monetario atteso di questa lotteria è positivo, quindi perché esitare? Eppure, se, psicologicamente, confrontiamo il beneficio di vincere 150 euro con il costo psicologico di perderne 100, nonostante ci sia una uguale probabilità di vincere una somma maggiore di quella che perderesti, la maggior parte di noi si trova a disagio davanti ad una simile opzione e preferisce non accettare la scommessa. Per la maggior parte di noi, infatti, la paura di perdere 100 euro è decisamente più forte della speranza di guadagnarne 150. Con un’espressione resa nota dal Nobel per l’economia Daniel Kahneman e dal suo collega e amico Amos Tversky, possiamo dire che l’essere umano è tendenzialmente «avverso alle perdite» (loss averse). In altri termini, il peso psicologico associato alla perdita di una certa somma di denaro è decisamente maggiore - tra una volta e mezza a due volte e mezza - del beneficio psicologico che sperimentiamo a seguito del guadagno della stessa somma.

L’asimmetria tra vincite e perdite

Tra vincite e perdite c’è, in termini di benessere e malessere, una forte asimmetria. Una delle strane implicazioni di questa avversione alle perdite è che, se siamo davanti ad una situazione dove possono esserci sia vincite che perdite, allora l’avversione alla perdita ci indurrà a scelte molto prudenti, ma se, invece, ci troviamo in una situazione dove ci sono solo perdite, sicure o probabili, una perdita sicura rappresenta una prospettiva peggiore di una perdita molto maggiore, ma solo probabile. L’avversione alla perdita in questo caso ci spinge a rischiare il tutto per tutto. Ecco perché i giocatori sull’orlo della bancarotta preferivano, invece che smettere di giocare e realizzare in quel modo la perdita effettiva, continuare a giocare e a giocare sempre più forte. Un fenomeno noto tra gli addetti ai lavori come “money chasing”, l’inseguimento di una vincita che non arriverà mai e che porterà la vittima sempre più a fondo, fino al tracollo. La paura di metterci davanti all’errore ci induce ad un errore ancora più grande.

Le conseguenze dell’avversione alla perdita

Eppure, l’avversione alla perdita è una strategia cognitiva che si è evoluta per proteggere ed aumentare le nostre probabilità di sopravvivenza. Tenersi lontano dalle minacce è, evolutivamente parlando, più importante che ricercare le migliori opportunità. Questa constatazione è al limite del banale, ma in ambito economico, l'introduzione dell’asimmetria tra guadagni e perdite ha rappresentato una vera e propria rivoluzione. Daniel Kahneman la racconta così: “Il concetto di «avversione alla perdita» è sicuramente il contributo più significativo della psicologia all'economia comportamentale. È strano, perché l’idea che la gente valuti molti risultati come guadagni e perdite e che le perdite appaiano più grandi dei guadagni non stupisce nessuno. Amos [Tversky] ed io spesso dicevamo scherzando che eravamo impegnati nello studio di un argomento di cui le nostre nonne sapevano moltissimo. In realtà, sappiamo più di quanto non sapessero le nostre nonne e rileviamo le conseguenze dell'avversione alla perdita in fenomeni sorprendentemente diversi” (“Pensieri lenti e Veloci”, 2012, Mondadori).

Perché molti servizi ci vengono proposti in modalità gratuita, pensate per esempio allo spazio di memorizzazione dati sul cloud, e poi siamo indotti all'acquisto di una formula “premium” a pagamento? Anche qui gioca un ruolo fondamentale la nostra avversione alla perdita. Dopo aver sperimentato l’utilità di un servizio, smettere di utilizzarlo è molto più doloroso, psicologicamente, del benessere guadagnato originariamente dal suo utilizzo. Ci sono sempre più imprese che costruiscono intorno a tale fenomeno il loro modello di business.

Cos’è l’Endowment effect

Allo stesso modo tendiamo ad attribuire ai beni che possediamo un valore maggiore del prezzo che saremmo disposti a spendere se dovessimo ancora comprarli (“Endowment effect”). Così come spesso manteniamo in portafoglio troppo a lungo titoli che stanno perdendo valore perché, nel momento in cui dovessimo venderli, le perdite, immediatamente, si materializzerebbero, quindi meglio procrastinare e continuare a perdere. Ci crogioleremo, così, nella convinzione di non aver perso, fin quando non avremo venduto.

È il nostro cervello - e come potrebbe non esserlo - a dirci come gestire l’asimmetria tra guadagni e perdite. L’amigdala, il centro delle emozioni e della paura, si attiva in maniera evidente anche solo quando pensiamo ad una perdita. Allo stesso modo il corpo striato, quella parte del nostro encefalo deputata alla previsione degli errori e all’apprendimento per rinforzo, si attiva relativamente di più quando sperimentiamo una perdita rispetto ad un guadagno equivalente. Infine, c’è una terza area, l’insula, che sappiamo essere legata all’emozione del disgusto, anch’essa si attiva relativamente di più davanti ad una perdita piuttosto che ad un guadagno.

I fattori culturali

Oltre alla natura, però, c'è anche la cultura, e quindi vediamo che la disposizione verso maggiori o minori livelli di avversione alla perdita è associata a matrici culturali differenti. Gli studi sembrano suggerire che il background culturale sia rilevante in particolare per quanto riguarda la dimensione individualistica o collettivistica del modello culturale dominante. In società di stampo individualistico il peso di un errore può essere maggiore rispetto a quello dello stesso errore in una società di natura collettivistica nella quale, per esempio, è più probabile che la rete relazionale e parentale sia a disposizione di chi ha commesso l’errore per attenuarne le conseguenze. Tale diversa prospettiva potrebbe aver fatto sviluppare atteggiamenti differenti rispetto alle potenziali perdite.

I costi irrecuperabili dell’avversione alla perdita

Una delle conseguenze più devastanti dell'avversione alla perdita è legata a ciò che gli economisti chiamano “costi irrecuperabili” (sunk costs). Una delle più diffuse e pervasive violazioni del criterio di razionalità delle scelte sta proprio nel considerare, tra i criteri decisionali rilevanti, i costi che sono già stati sostenuti nel corso del processo che ha portato al momento della decisione.

Immaginate di dover decidere se andare a vedere un film per il quale avete già comprato il biglietto. L’umore è cambiato e il tempo fuori e brutto. Vi è passata la voglia di andare a vedere il film. Il fatto di aver già comprato il biglietto dovrà avere quale peso nella decisione finale se andare a vedere il film oppure no? Tendenzialmente siamo tutti propensi a dire di sì. Avendo già in mano il biglietto sono più motivato ad andare a vedere il film di quanto non lo sarei se non avessi già comprato il biglietto. Eppure, questo ragionamento è fallace. È un errore considerare i costi irrecuperabili come quello associato all'aver già acquistato il biglietto. Cosa può succedere infatti? O vado a vedere il film, anche se non ne ho più voglia, oppure deciderò di utilizzare meglio il mio tempo decidendo di fare qualcosa da cui trarrò maggiore benessere. La seconda opzione sembra preferibile, indipendentemente dal fatto che in entrambi i casi il costo del biglietto sia già stato sostenuto. Eppure, l’avversione alle perdite ci fa percepire questa situazione in maniera differente. Abbiamo già speso e quindi dobbiamo andare a vedere il film anche se non ne abbiamo più voglia perché altrimenti perderemmo i soldi del biglietto.

È la stessa logica che ci tiene incatenati allo status quo, che ci rende difficile il cambiamento, che ostacola le riforme, che ci fa guardare con rimpianto al passato e con diffidenza verso il futuro. È una paura di sbagliare che ci induce a nuovi e peggiori errori. Ma è anche una logica che conosciamo e che possiamo gestire. La meraviglia della mente umana deriva dalla consapevolezza dei propri limiti e dalla possibilità di conviverci e perfino superarli con la volontà. L’evoluzione ha plasmato la nostra mente e la nostra mente e la nostra cultura possono plasmare l’evoluzione. Per questo, non tutti gli errori vengono per nuocere.

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