Il Lavoro come Amore

Bruni, Luigino

Il Lavoro come Amore
Per una rilettura antropologica del discorso economico
pubblicato su Sophia - Ricerche su i fondamenti e la correlazione dei saperi - 2008 n°0

Premessa

La mancanza di riflessione profonda sul lavoro è una delle gravi lacune della teoria economica contemporanea, che ormai da decenni ha smesso di interrogarsi sulla natura del lavoro per concentrarsi unicamente sul lavoratore inteso come risorsa umana o come capitale umano che risponde, razionalmente, ad incentivi e sanzioni.

Anche l’attuale crisi finanziaria, ed economica, globale mostra con grande forza che il lavoro umano è decisamente relegato sullo sfondo del nostro modello di sviluppo capitalistico, sempre più in mano alla finanza che ha perso ogni contatto con la fatica del lavoro.

In questo saggio ci domanderemo quale siano le caratteristiche dell’attività umana “lavoro”, e lo faremo alla luce dell’esperienza e della cultura che nasce dall’Economia di Comunione (EdC), un progetto lanciato da Chiara Lubich nel 1991 in Brasile.

Vedremo che il messaggio che l’EdC e la cultura del carisma dell’unità rivolgono alla cultura e al mondo del lavoro è duplice: a) una critica forte ad una certa ideologia del lavoro e del lavorare, che oggi sta invadendo tutte le sfere dell’umano, b) una proposta carica di speranza e di futuro.

Alcune note sulla cultura attuale del lavoro

Il lavoro oggi è sottoposto ad una tensione paradossale: da una parte la nostra vita e le nostre famiglie sembrano essere occupate o invase interamente dal lavoro; dall’altra, però, il lavoro è minacciato, precario, fragile, insicuro, sempre più vulnerabile.
Per iniziare, e a mo’ di introduzione, faremo una breve incursione nel passato. La valutazione culturale del lavoro, infatti, risente del tempo e dello spazio (ancora oggi ci sono molte culture nel pianeta, da quella giapponese a quella cinese, all’indiana o alla africana (o meglio africane).
Nel medioevo è avvenuta la prima grande rivoluzione nella cultura del lavoro. Fino alla civiltà cittadina medievale - e, in certo senso, solo all’interno delle mura delle città: al di fuori è rimasta fino a tempi recenti la cultura feudale antica -, al vertice della piramide sociale c’erano i “non lavoratori”, cioè redditieri, ecclesiastici o aristocratici, che non potevano e non dovevano lavorare.

La nobiltà era associata alla rendita, al sangue, alla casata, al potere politico: in una parola al non-lavoro. Nel mondo greco, e in parte in quello romano, il lavoro non era infatti “vita buona”,né, tantomeno, fioritura umana. Non era l’esperienza tipica del cittadino e della polis, ma quella della famiglia, della oeconomia, della casa.
Il lavoro non era considerato attività degli uomini liberi, ma realtà legata a rapporti di potere e di dominio (servo-padrone, dirà Hegel più avanti). La vita buona è vita politica, e nella politica non c’è posto per i lavoratori, che non potevano ricoprire cariche pubbliche; lavoravano soprattutto gli schiavi, che consentivano così agli uomini liberi di affrancarsi dalla più radicale delle schiavitù: quella delle necessità vitali (mangiare, vestirsi, ripararsi …).

Durante il medioevo, e grazie anche alla maturazione dell’evento cristiano nella storia (si pensi alla figura di Paolo, lavoratore di tende), inizia una lenta ma radicale rivoluzione nel modo di intendere il lavoro, che viene via via rivalutato e posto al centro della vita civile.

Da una parte, grazie ai grandi movimenti monacali (basterebbe solo pensare all’ora et labora) in occidente e in oriente, all’influenza ebraica in Europa, alla cultura cittadina e dei suoi artigiani-artisti, al carisma francescano e poi alla riforma protestante (calvinista in modo particolare), nel vecchio continente si è iniziato ad associare il lavoro all’uso responsabile del tempo e delle cose. É nata una vera e propria etica del lavoro, una esperienza e una cultura del lavoro che sono state poi all’origine dell’umanesimo, prima, e poi della rivoluzione commerciale e industriale, da cui è nata l’economia moderna come oggi la conosciamo.

La modernità, infatti, è nata dalla crisi della cultura medioevale e antica del lavoro, quella artigiana, mercantile e cittadina. In quella cultura, il lavoro era vissuto come responsabilità individuale e sociale, interpretato alla luce di un’etica dell’azione che creava quei confini naturali tra ciò che si può e ciò non si può fare nello svolgimento dell’attività lavorativa ed economica.

Questa visione che possiamo chiamare “classica” del lavoro, nel XX secolo ha ceduto il passo ad una nuova idea di lavoratore, ad una nuova antropologia o cultura del lavoro che è stata il frutto di due movimenti che si sono concepiti alternativi tra di loro, ma che in realtà erano più vicini di quanto si possa pensare in superficie: quello liberal-individualista e quello marxista-socialista. Dallo scontro di queste due vere e proprie civiltà, è emerso nel XX secolo qualcosa di nuovo circa il modo di intendere il lavoro e il lavoratore, un nuovo umanesimo del lavoro che oggi si sta esprimendo in tutte le sue potenzialità - e che porta ben distinguibili i cromosomi dei suoi “genitori” (individualismo e marxismo). (continua..)

Il lavoro come amore