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Perché è così difficile negoziare e come evitare il vicolo cieco dell’impasse

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 18/04/2021

Uno dei problemi più studiati e ancora, in parte, irrisolto delle scienze comportamentali riguarda la frequenza con la quale moltissimi negoziati finiscono in una impasse, una situazione di stallo dalla quale le parti coinvolte non riescono ad uscire e che, spesso, determina spreco di tempo, risorse economiche e, non di rado, disagio psicologico. L'impasse può riguardare molte situazioni differenti: dalle cause in tribunale alle contese aziendali, dalle faide domestiche ai conflitti etnici e religiosi. La natura paradossale di questi casi non risiede solo nel fatto che tutte le parti coinvolte si trovano, alla fine, a perdere qualcosa, ma anche nel fatto che, siccome generalmente queste impasse si manifestano durante lunghi periodi di tempo, questo tempo potrebbe, certamente, dare molte occasioni di incontro tra le parti, di comunicazione e, quindi, di compromesso. Non è, dunque, la carenza di opportunità a far sì che gli accordi sfumino.

Il ruolo dell’informazione asimmetrica

Dobbiamo cercare la causa e, forse, anche la soluzione, da qualche altra parte. I teorici dei giochi hanno ipotizzato vari meccanismi alla base delle negoziazioni infruttuose e, in particolare, si sono concentrati sul ruolo dell'informazione asimmetrica: le parti non sono a conoscenza di tutte le opzioni che le controparti possono avere a disposizione, del valore preciso che attribuiscono alla posta in palio, dei costi che sono disposte a sopportare. L'incertezza riguardo tutti questi e altri aspetti del negoziato renderebbero complicato il raggiungimento di un accordo anche se mutuamente vantaggioso. La validità empirica di questa spiegazione è difficile da valutare perché è molto complicato sottoporre a un test sperimentale situazioni dove regna un tale livello di incertezza e soprattutto controllare fattori così soggettivi come le credenze, le aspettative, i valori individuali. Ci sono anche spiegazioni alternative che sono state recentemente avanzate. Per esempio, gli economisti comportamentali Linda Babcock e George Loewenstein, sono convinti che lo stallo che affligge spesso i negoziati possa derivare da un particolare meccanismo psicologico, il cosiddetto self-serving bias, che ci porta a confondere, in parole povere, ciò che è giusto con ciò che ci fa più comodo.

L’esperimento di Hastorf e Cantril

Questo meccanismo è presente in moltissime situazioni e spiega comportamenti a volte bizzarri. Gli studi psicologici, per esempio, hanno individuato una sistematica tendenza a sopravvalutare il nostro apporto individuale nell'ambito di un lavoro di gruppo e quindi a prenderci più merito di quanto ne dovremmo avere in caso di successo, e a limitare le nostre responsabilità in caso di insuccesso. Analogamente siamo portati ad attribuire i nostri successi alla nostra abilità e al nostro impegno e gli insuccessi, invece, alla sfortuna. Il bias in questione non influenza solo le valutazioni individuali, ma anche quelle dei gruppi. In un classico esperimento, gli psicologi Albert Hastorf e Hadley Cantril fecero esaminare il filmato di una partita di football a due gruppi di tifosi chiedendo a ciascun gruppo di identificare il numero totale dei falli, quelli fischiati e quelli passati inosservati agli arbitri, commessi da entrambe le squadre. I tifosi di una squadra indicarono approssimativamente un numero di falli identico per entrambe le parti, mentre i tifosi dell'altra squadra imputarono alla squadra avversaria il doppio dei falli commessi dalla propria. Il numero reale di falli sta da qualche parte là in mezzo, in un territorio di imparzialità nel quale nessuno dei partecipanti intende avventurarsi. I tifosi hanno visto lo stesso filmato, ma, come concludono gli autori dello studio, “E' come se ne avessero visto due differenti" (“They Saw a Game: A Case Study.” Journal of Abnormal and Social Psychology, 49(1): 129–34, 1954.).

La parabola evangelica

Una delle parabole evangeliche che più disturba il nostro senso comune è quella dell'operaio dell'ultima ora raccontata da Matteo (20,1-16): Il padrone di vigna esce all'alba per assumere dei lavoratori a giornata. Si accorda con loro per un denaro al giorno. “Uscito poi verso le nove del mattino – continua l'evangelista - ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: andate anche voi nella mia vigna”. Alla sera il padrone della vigna fece chiamare gli operai per la paga incominciando dagli ultimi fino ai primi. “Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?”. Chissà se David Messick e Keith Sentis avevano in mente questa parabola quando progettarono il loro esperimento. Divisero i partecipanti in due gruppi. A ciascun membro del primo gruppo chiesero, tra le altre cose, di immaginare di aver lavorato per sette ore e di essere stato pagato $25 (siamo nel 1979) mentre un'altra persona del proprio gruppo ha lavorato dieci ore. Ai membri del secondo gruppo veniva detto che un'altra persona che aveva lavorato sette ore era stata pagata $25.

Il concetto relativo della “giusta remunerazione”

A tutti i partecipanti veniva chiesto poi quanto ritenevano sarebbe stato giusto pagare chi aveva lavorato dieci ore. L'unica differenza tra i gruppi era che in un caso la paga sarebbe andata ad un altro e nel secondo caso a loro stessi. Come si può immaginare il concetto di “giusta” remunerazione varia a seconda del fatto che questa tocchi a noi o a qualcun altro. E così i membri del primo gruppo stimarono come una paga giusta una somma di circa $30, quelli del secondo gruppo, invece, salirono a oltre $35 (“Fairness and Preference.” Journal of Experimental Social Psychology, 15(4): 418–34, 1979). Quei cinque dollari di differenza non sono altro che l'effetto del self-serving bias applicato al criterio di giustizia. Si potrebbero fare ancora molti esempi. Ma a noi, ora, interessa capire in che modo questa distorsione cognitiva provochi lo stallo negoziale. Gli effetti a riguardo sono tre: innanzitutto, se le parti che stanno contrattando una soluzione attribuiscono valore alla posta in gioco influenzati dal self-serving bias saranno portati a sovrastimare tale valore. Alla ricerca di un accordo commerciale, per esempio, il fondatore di un'impresa può essere tentato di attribuire alla sua “creazione” un valore superiore a quello che effettivamente dovrebbe avere sul mercato. I potenziali investitori, d'altro canto, cercheranno di entrare in società a condizioni più favorevoli possibili per loro.

Il dilemma del negoziato

Queste contrapposte tendenze possono eliminare quella zona di sovrapposizione degli interessi comuni all'interno della quale è possibile trovare un accordo su di un valore mutuamente vantaggioso. In secondo luogo, se confondiamo ciò che ci conviene con ciò che è giusto, saremo portati ad interpretare il comportamento dell'altra parte, che non riconosce la nostra magnanima equità, come frutto di malafede ed egoismo ed orientato ad ottenere un ingiusto e immeritato guadagno. Infine, le ricerche ci dicono che in un negoziato le parti sono molto raramente disposte a trovare un accordo che preveda anche una piccola deviazione da ciò che ciascuno percepisce come un accordo equo. Il self-serving bias, spostando questo ipotetico punto di contatto nella direzione di ciò che avvantaggia ciascuna delle parti in campo, rende l'accordo impossibile da raggiungere. Le ricerche mostrano che questi effetti si verificano anche quando le parti coinvolte hanno tutte accesso alle stesse informazioni, cioè quando non c'è incertezza sulle opzioni in campo e sui valori oggettivi in gioco e non è neanche, spesso, frutto di malafede o manipolazione strategica. Secondo Rasyid Danitioso e i suoi colleghi “Le persone cercano di costruire una giustificazione razionale per le conclusioni a cui vogliono giungere. Per questo ricercano nella memoria quelle che pensano possano essere informazioni rilevanti, ma tale ricerca è sbilanciata in favore delle informazioni che sono coerenti con le conclusioni desiderate. Se si riesce a trovare una preponderanza di tali informazioni coerenti, si sarà in grado di trarre le conclusioni desiderate mantenendo, al contempo, una illusione di obiettività” (Danitioso, R., Ziv Kunda, and Gregory T. Fong. 1990. “Motivated Recruitment of Autobiographical Memories.” Journal of Personality and Social Psychology, 59: 229–41).

Mettere in discussione la bontà dei nostri giudizi

Ed è proprio questa illusione di obiettività a rendere ancora più subdola l'azione del self-serving bias e difficile la sua eliminazione. Prima di tutto, infatti, occorre convincerci che, realmente, il nostro punto di vista non sempre è così obiettivo e giusto e non sempre ciò che pensano o fanno coloro che non la pensano o non fanno come noi è, invece, sbagliato e ingiusto. Sfortunatamente il solo sapere dell'esistenza e delle potenziali conseguenze del bias non aiuta. Ci fa cambiare, a volte, la percezione del comportamento degli altri ma non influenza il nostro. Non sempre aiuta, neanche, l'esercizio di metterci nei panni degli altri. Osservare la scena dalla prospettiva della controparte non sembra avere un effetto comportamentale forte e non fa aumentare la probabilità di raggiungere un accordo. Ciò che invece si è visto esercitare un effetto significativo è il mettere in discussione la bontà dei nostri giudizi. Si sa, per esempio, che l'effetto dell'hindsight bias, la tendenza a giudicare il passato sulla base di informazioni che abbiamo solo oggi e di cui abbiamo già parlato, può essere ridotto quando proviamo ad elencare ragioni e motivi per cui le cose sarebbero anche potute andare diversamente da come sono andate effettivamente.

Trovare contro-argomenti alle proprie argomentazioni

Anche nel caso di altri bias, l'overconfidence, per esempio, le conseguenze negative possono essere ridotte quando si istruiscono le persone a pensare a contro-argomenti per le loro argomentazioni. Questa forma di umiltà autoindotta che deriva anche solo dal considerare la possibilità che le cose potrebbero essere diverse da come ci appaiono, produce effetti positivi anche nel caso del self-serving bias e riduce l'incidenza delle impasse nei processi di contrattazione. Abbiamo, quindi, da una parte una strategia cognitiva evolutivamente adattativa che ci aiuta a preservare la nostra autostima e, in alcuni casi, anche la salute mentale, che, però, dall'altra, ci induce sistematicamente in errore e ci spinge verso esiti subottimali. “Più tristi ma più saggi” scriveva, qualche anno fa, Jon Elster. Pare proprio sia così. Ma se aggiungiamo alla saggezza un pizzico di umiltà, allora questa saggezza ci renderà capaci di gestire meglio le relazioni con gli altri, i potenziali conflitti, le dispute e tutte quelle situazioni nelle quali una sapiente arrendevolezza ci consentirà di spuntare l'accordo migliore, il compromesso più felice, la pace duratura. La logica paradossale che presiede al funzionamento delle nostre relazioni ci spiega che, anche solo mettere in conto la possibilità di essere nel torto, può aiutarci ad ottenere quei risultati che sarebbero irraggiungibili se anche avessimo ragione da vendere. Essere saggi significa, quindi, contemplare, innanzitutto, la possibilità di non esserlo. L'aveva svelata la Pizia a Cherefonte millenni fa, questa verità, che oggi stentiamo a riscoprire.